Nella teorica disputa tra i due più grandi nomi del rock australiano contemporaneo, King Gizzard and the Lizard Wizard e Tropical Fuck Storm, non c’è dubbio che la palma del vincitore spererebbe di gran lunga ai secondi. Se è vero che il collettivo capitanato da Stu Mackenzie gode certamente di maggiori favori da parte del pubblico, grazie ad un’attitudine cazzara, ai millemila dischi pubblicati citando ogni volta generi diversi, e a live show che definire incendiari è poco, Gareth Liddiard e compagni, per quanto meno immediati, a tratti anche ostici e spigolosi, riescono senza dubbio ad andare dritti al punto, centellinando le idee e mirando sempre e comunque all’eccellenza qualitativa.
Per carità, le due band sono amiche e non c’è assolutamente nessuna rivalità tra loro (anche perché, molto semplicemente, non c’è abbastanza pubblico perché la solita stampa possa trovare interessante montarla) ma è giusto sottolineare che siamo al cospetto di due realtà completamente diverse.
Poco prolifici, in effetti, i Tropical Fuck Storm: Deep States è del 2021, dopodiché era uscito un EP di cover, Submersive Behaviour, e il live Tropical Fuck Storm’s Inflatable Graveyard, che ha fatto capire anche a chi non li avesse visti in azione di persona, che sul palco sono proprio un’altra band.
Fairyland Codex è stato composto piuttosto in fretta, col cantante e chitarrista Gareth Liddiard e la batterista Lauren Hammel a jammare e a registrare idee su un vecchio quattro piste, conservando poi le idee migliori e proponendole al resto della band perché assumessero forma definitiva.
Se Deep States, a detta loro, non era uscito come avrebbe dovuto per via delle difficoltà di lavorare in posti diversi in piena pandemia (a parte Liddiard e la bassista e cantante Fiona Kitschin, che sono marito e moglie, i quattro abitano nella campagna australiana e le distanze non sono proprio banali) questa quarta prova in studio dovrebbe essere riuscita ad offrire la migliore fotografia della band.
Diciamolo subito: le cose stanno esattamente così. In studio i Tropical Fuck Storm sono meno selvaggi e più chirurgici, ma i ritmi “storti”, le melodie oblique e leggermente dissonanti, la cascata rumoristica delle chitarre, le molteplici influenze che riescono ad infilare da un pezzo all’altro, sono lì a ricordarci che siamo di fronte ad un gruppo fuori dal comune.
Come in un ideale incrocio tra le bizzarrie sonore dei Pere Ubu e le taglienti abrasioni dei Birthday Party, il quartetto innesta il Post Punk su un’attitudine non lontana dal Garage Rock e punta tutto su un eclettismo sonoro che non va mai tuttavia a ledere quella che è la forma canzone. Ad esaminare il disco nel dettaglio, infatti, si trova che mai come a questo giro il quartetto ha saputo coniugare spigolosità e accessibilità, per esempio dilungandosi in ballate intense e melodicamente vincenti: “Stepping on a Rake” tocca le giuste corde emozionali, con Liddiard mai così espressivo nell’interpretazione vocale; la title track è una lunga divagazione che in nove minuti passa dal minimalismo acustico ad assoli spagnoleggianti, attraverso graduali riempimenti sonori nella parte centrale; “Bye Bye Snake Eyes” incorpora elementi Folk, mentre “Moscovium” chiude il disco tra toni struggenti e subitanee esplosioni elettriche (ed il finale è una delle cose più belle che i nostri abbiano fatto nei loro ancora pochi anni di carriera).
Non è comunque un disco pacato: l’opener “Irukandji Syndrome” (il riferimento è ad un tipo di medusa australiana particolarmente velenosa) si apre con un riff di basso strabordante e ha un incedere implacabile che dal vivo, siamo certi, provocherà sfracelli. “Goon Show” prosegue sulla stessa falsariga, tra ritmiche irregolari e assalti sonori, mentre quando sono Fiona Kitschin ed Erica Dunn a prendere in mano le parti vocali, ne escono sempre soluzioni molto particolari (“Bloodsports”, “Teeth Marché”).
“Dunning Kruger’s Loser Cruiser” è una delle migliori, con la batteria e la chitarra che sembrano andare in due direzioni differenti, lo sfogo rumoristico nella parte centrale ed un ritornello che riesce ad essere straordinariamente orecchiabile in qualche modo misterioso. E poi c’è “Joe Meek Will Inherit the Earth” (titolo a suo modo geniale), che si muove tortuosa in mezzo ad influenze psichedeliche.
E occorre sottolineare anche i testi: Gareth Liddiard è un paroliere straordinariamente dotato, surreale, visionario ma anche profondamente caustico; in questo disco dipinge il ritratto spietato di una società alla deriva, tra ipotesi di cataclisma e identità sempre più polarizzate (molto efficace il verso di “Goon Show”, "Where people wave their flags at people waving flags") ma in mezzo ad immagini criptiche dall’indubbio fascino letterario si intravede anche tanta ironia, che è poi è un’altra faccia della stessa attitudine scanzonata e divertita che amano sfoggiare durante i concerti.
Fairyland Codex è, se possibile, la consacrazione definitiva di una delle band più grandi di questi ultimi anni: se non ve ne siete ancora accorti, avete un’ottima possibilità per rimediare. Nell’attesa che ritornino dalle nostre parti per spaccare tutto.