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REVIEWSLE RECENSIONI
22/05/2020
Fake Names
Fake Names
Vero e proprio supergruppo, i Fake Names sono quattro amici musicisti dal lungo e impressionane curriculum. Il loro Punk Rock snello, melodico e dall’alto contenuto politico non sarà rivoluzionario, ma è un vero e proprio inno al piacere di suonare insieme.

Nella storia del Rock ci sono più band nate tra i banchi di scuola di quante se ne possa immaginare. I Fake Names non fanno eccezione, anche se la loro formazione è avvenuta in “leggera” differita. Ma andiamo con ordine. È l’inizio del 2016 quando Brian Baker (Minor Threat, Dag Nasty, Bad Religion) e Michael Hampton (S.O.A., Embrace, One Last Wish) si incontrano nella casa di quest’ultimo a Brooklyn per suonare in totale relax, senza nessun piano se non scrivere al massimo un paio di canzoni e passare del tempo insieme. Baker e Hampton, infatti, si conoscono fin dalla prima elementare e hanno condiviso molte esperienze nella scena Punk e Hardcore di Washington, D.C. Dal momento che la session si è rivelata più fruttuosa del previsto, i due amici decidono di dare una possibilità alle canzoni appena scritte e formano una band. Alla ricerca di un bassista, i due chitarristi si rivolgono a Johnny Temple (Girls Against Boys, Soulside) che, tanto per cambiare, ha frequentato le elementari con loro.

Per chiudere la line-up, manca solo il cantante. Dopo una serie di false piste, Baker e Temple trovano il loro uomo in Dennis Lyxzén (Refused), incontrato quasi per caso in fila al catering del Chicago Riot Fest del 2016, in una giornata che vedeva Girls Against Boys, Bad Religion e Refused nello stesso cartellone. Una volta che il cantante di Umeå ha accettato, con grande entusiasmo, di far parte della band, Baker, Hampton e Temple sono volati a New York, e lì si sono rinchiusi presso i Renegade Studios di “Little Steven” Van Zandt per registrare il disco, con Matt Schulz (Enon, Holy Fuck, SAVAK) alla batteria. Completate le basi strumentali, i quattro hanno poi passato il materiale a Lyxzén, che lo ha completato da remoto nel suo studio in Svezia.

Il risultato è Fake Names, co-prodotto da Michael Hampton e Geoff Sanoff e pubblicato dalla Epitaph di Brett Gurewitz (che ha ascoltato le demo del disco per puro caso durante una pausa delle registrazioni di Age of Unreason dei Bad Religion e si è innamorato del progetto). Un album Punk Rock in puro stile East Coast, viscerale e arrabbiato, fatto di malinconia e un pizzico di epicità. È musica senza fronzoli, quella dei Fake Names, con una sezione ritmica essenziale e con le chitarre che si divertono a dialogare tra loro, creando il perfetto tappeto sonoro per la voce di Lyxzén, che per un attimo abbandona lo stile vocale adottato solitamente con i Refused per un atteggiamento più disteso, vicino a quanto fatto con i The (International) Noise Conspiracy, dei quali riprende anche la componente politica dei testi delle canzoni.

È vero, alle volte fa un po’ strano ascoltare liriche nelle quali viene attaccata la società contemporanea e la finanza speculativa, sostenute da una musica che è vicina al Power Pop. Ma forse il bello dei Fake Names sta proprio nelle loro contraddizioni, perché alle volte non c’è niente di meglio che prendere coscienza di qualcosa canticchiando un motivetto dall’alta carica melodica.

«Three chords and the truth», ovvero «tre accordi e la verità», è una frase attribuita al grande songwriter statunitense Harlan Howard, che la coniò negli anni Cinquanta per descrivere l’essenza della musica Country. Ebbene, nel loro album di debutto i Fake Names fanno praticamente la stessa cosa: canzoni dalla struttura semplice, belle chitarre in evidenza e una voce che parla al cuore dell’ascoltatore, rivelandogli verità scomode con quella giusta dose di retorica che ha solo il Punk Hardcore. Insomma, Fake Names è un vero e proprio inno al piacere di suonare insieme, al crescere, andare avanti con la propria vita meglio che si può e imparare dei propri errori. Il tutto, cercando di divertirsi il più possibile. È vero, magari non è uno di quei dischi che ti cambiano la vita, ma almeno mette il buonumore – facendo anche riflettere – per una mezz’ora abbondante. Fossero tutti così, i supergruppi.


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