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REVIEWSLE RECENSIONI
25/04/2018
Black Stone Cherry
Family Tree
Family Tree è, dunque, un disco riuscito, che pur muovendosi su coordinate risapute e ribadendo concetti arcinoti, regala la miglior performance di sempre dei Black Stone Cherry, grazie a una potenza finalmente dispiegata senza troppi filtri. A volume esagerato, l’effetto bomba è garantito

Da anni mi aspetto che i Black Stone Cherry facciano un definitivo salto di qualità e, invece, a ogni nuova uscita resto (parzialmente) deluso. Figli nerboruti dell’hard rock anni ’70, scorticato però dai coltellacci southern dei rangers del Kentuky, Chris Robertson e soci hanno infatti sempre diluito la propria energica proposta facendo largo uso di ganci melodici, più consoni a passaggi radiofonici in FM che a un raduno di veterani appassionati di rock sudista.

I precedenti cinque album alternavano, così, momenti derivativi, ma tutto sommato riusciti, ad altri impastoiati dalle logiche di un appeal buono per le radio ma spesso privo di genuinità. Insomma, hard rock spiccio e muscolare, sentore di salsa barbecue, piede pigiato sull’acceleratore e riffoni pesi usati come specchietto per le allodole di un suono che, in realtà, disperdeva i kilowatt in ritornelli troppo catchy per rendere il risultato finale credibile.

Con Family Tree, sesto disco di una carriera iniziata dodici anni fa, qualcosa però è cambiato. Non è certo l’originalità il fiore all’occhiello del combo del Kentucky, ma almeno questo nuovo disco è solido, compatto, martellante, di facile presa, certo, ma senza artifici melodici che diluiscono un potenziale energetico immenso. I tredici pezzi in scaletta, quindi, suonano più grezzi e ruspanti del solito e vanno dritti al centro del bersaglio, in una cavalcata rumorosa per oltre cinquanta minuti di hard rock sudista che spesso sconfina in territori heavy metal.

Il riff claptoniano e la morsa d’acciaio di basso e batteria aprono velocissimi le danze con Bad Habit, i cui concetti vengono ribaditi nell’incedere pesante e quadrato di Burnin’. L’albero genealogico sudista e la consanguineità, in questo caso soprattutto, coi Black Crowes vengono sfoggiati nelle pimpanti Carry Me On Down The Road e My Last Breath, entrambe risultato di una sour mash fermentation in botti di rovere. Finalmente, retrogusto bourbon e un Sud più verace, meno da cartolina.

L’album trova il suo vertice esattamente a metà, con l’hard rock blues di Dancin’ In The Rain, che vede alla voce e alla chitarra miagolante niente meno che Warren Haynes (Gov’t Mule), e prosegue, poi, fino alla fine che un buon filotto di canzoni, che scorrono rapide tra riff e assoli, regalandoci almeno altri due momenti di grande impatto, quali James Brown, groove funky vestito di corazza metallica, e la title track, la più melodica del lotto, ma attraversata anche dall’assolo di una chitarra che suona come un’aspirapolvere atomica, risucchiando note e pathos.

Family Tree è, dunque, un disco riuscito, che pur muovendosi su coordinate risapute e ribadendo concetti arcinoti, regala la miglior performance di sempre dei Black Stone Cherry, grazie una potenza finalmente dispiegata senza troppi filtri. A volume esagerato, l’effetto bomba è garantito.