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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
29/05/2023
Le interviste di Loudd
Federico Madeddu Giuntoli: senza evasione, destrutturo me stesso a nuova rinascita

“Rinnovano in modo delicatamente feroce la richiesta all’ascoltatore di non indulgere in una deriva onirica, escapista, di mera piacevolezza, ma di permanere presente alla complessità delle cose”

(F. Madeddu Giuntoli).

 

Rinnovo agli amici di questa redazione, tutti, un grazie sincero. Che loro sono la mia scusa buona per avventurarmi dove forse non sarei mai andato, non altro che per mera pigrizia. A loro il grazie perché hanno il coraggio di osare nella cultura, ospitando scritti e dischi che diversamente sarebbero ignorati. Ignorati dalle luci della ribalta che celebrano il qualunquismo come filo conduttore di una massificazione ad uso e consumo dei numeri.

Qui si richiede un centinaio di passi da fare oltre, in ben altra direzione, e che siano ben larghi, con tutta l’umile presunzione del caso. Federico Madeddu Giuntoli non l’ho conosciuto quando era con i DRM, ma l’ho incontrato ora in un disco che segno tra quelli fondamentali nel mio percorso di ricerca. The Text and the Form, uscito per la label giapponese FLAU, sembra contenere in se tutto quello che da solo gioco ad inventare, pensieri facendo, sembra conservare nei solchi che porta tutto quello che allo stesso tempo destrutturo, scompongo, analizzo nelle mie solitudini.

Questo disco lo ritrovo nei gesti quotidiani, nelle assurdità delle cose che decretiamo normali, nella continua sconfitta che l’uomo celebra nei confronti delle sue stesse macchine. Questo disco è un fazzoletto di carta piegata male che avvolge qualcosa, ma cosa? Siamo ancora capaci di inventarci quel che non possiamo vedere? Ha poi senso e ragione univoca la soluzione di una fantasia? Non penso, penso che ormai siamo solo capaci di seguire le piste stampate dalle abitudini industriali. Nudi di fronte ad una mancanza di soluzione univoca, persi senza riferimenti. La libertà di Fromm è un male al quale volgiamo le spalle, condizione incapace da gestire per l’uomo qualunque.

Questo disco invece elude tutto questo, il testo e la forma in quanto tali e restituisce il caos del sentire dentro moduli ricorsivi attorno ai quali, come edera rampicante, avvolge la sua carta stropicciata a coprire e custodire visioni e sensazioni che non possiamo esperire. Almeno stando comodi nelle regole nostre.

Sono 11 scritture, diapositive, istantanee, frammenti di vetro, pezzi di vita che siamo chiamati, appunto, a sentire. La complessità delle cose, per quanto brevi, non sarà un mero stendere cose, sotto forma di suoni, di sagome confuse a cui l’abbandono (forse) può restituire piacevolezza. La complessità di tutte le cose di questo disco va divorata con rabbia, con stupore, con l’ingenuità bambina di chi sa vivere ancora senza sovrastrutture e pregiudizi. Va ascoltato più e più volte senza cercare regole e riferimenti; è un modo violento dentro cui rivivere uno stato primigenio di libertà. Allora si che The Text and the Form risulterà anche per voi un disco indispensabile come le parole che mi ha regalato Federico Madeddu Giuntoli. Soltanto così ha senso ogni cosa, anche quelle sghembe che ognuno di noi avrebbe scartato in luogo di una estetica da rispettare per la pubblica piazza.

 

“Ogni suono è pienamente valido in sé” (F. Madeddu Giuntoli).

 

 

Ricorsivi: spesso nei solchi di questo disco trovo elementi ricorsivi, un po’ come il dialogo di “Lolita” o le note segrete di “#8" eppure il disco sembra così casuale, scorci di cocci sparsi. Che rapporto hai con la ricorsività delle forme?

Cogli, in effetti, un punto di riferimento estetico che ho. La ricorsività, il loop hanno un forte magnetismo su di me, specie quando il loro uso è radicale eppure sensibile, come nell’album Plee di Mokira, un lavoro che mi ha formato profondamente. Amo quando la ripetizione di un modulo sonoro evocativo si offre con la semplicità e la forza della fotografia.

 

E della casualità che mi dici? Casualità che sembra annidarsi dentro le esecuzioni, brani che nel loro svolgersi in fondo non cercano alcuna soluzione...

Cerco di onorare ciò che è casuale, soprattutto perché ho la sensazione che non sia in realtà casuale, ma piuttosto realizzazione, necessariamente imprevedibile, di ciò che attraverso me si vuol manifestare. Credo meriti la massima considerazione, ignorandolo starei ignorando ciò che mi viene suggerito dal Tutto. D’altronde, so bene che questo non implica una mia deresponsabilizzazione, perché la visione, la gestalt che lo deve riconoscere e rendere organico è la mia, ed è necessaria una mia costante cura affinché essa sia efficace, presente, trasparente.

 

Penso proprio alle diteggiature di “#8” che sembrano macchiare l’esecuzione ma in fondo sono ricchezze umane che ha il suono, e sono dettagli sparsi ovunque nel disco. Di questo dettaglio, condimento, elemento portante, che mi dici?

Credo la perfezione sia un ideale molto sopravvalutato e, in ultima analisi, tossico. Si è condizionati dalla percezione dell’errore come colpa, e ciò depotenzia l’apertura alla sperimentazione, la gamma delle possibili scelte, e infine l’originalità e la creatività in generale. Ogni suono è pienamente valido in sé. Nel caso di “#8”, come in altre tracce dell’album, uso deliberatamente questi suoni “di scarto”: ho bisogno proprio di loro e non di altri, perché nessun altro suono può mettermi a disposizione quel tipo specifico di espressività. La domanda che mi ponevo semmai era: questo suono veicola un senso di umana sensibilità, di umana vulnerabilità e, insieme, di umana determinazione ad esistere ed esprimersi?

 

Non è un caso che “Flow” sia pregno di tutto questo appena citato: un pianoforte confuso, forse estemporaneo, forse - appunto - “casuale”. La casualità delle cose è il normale flusso della realtà?

“Flow” è la sovrapposizione di frammenti di piano appartenenti a tre diverse improvvisazioni. Certamente, in questa estemporaneità, in questa impertinenza quasi, credo sia palpabile anche un elemento di senso dell’umorismo: il flusso apparentemente caotico della realtà si svela nella sua qualità non caotica (semmai inizialmente incomprensibile) anche grazie ad una nostra lettura più ampia, meno ristretta al nostro piccolo e dittatoriale percorso personale che si vuol imporre alla Vita. Una lettura più realistica, più panoramica, che include anche l’apprezzamento leggero, divertito, curioso di ciò che ci appare mera incongruenza.

 

E la stessa cosa potrei chiederti del drumming di “Inverse”, perché un solo di batteria così “scomposto”? Cosa ci sta ad indicare?

”Inverse” crea vuoto, silenzio, azzera l’occupazione dello spazio sonoro prodotto dalla prima parte dell’album. Con “Inverse” il discorso prosegue ma è portato avanti, con un piccolo effetto sorpresa, da uno strumento nuovo rispetto a quelli fino a quel momento usati, per giunta con la più drastica riduzione di stratificazione sonora possibile. Tutto momentaneamente si riduce ad una sequenza di elementi percussivi, splendidamente suonati dal batterista Maurizio Bottazzi, laconici ma profondamente jazz nella loro ultima essenza. Rinnovano in modo delicatamente feroce la richiesta all’ascoltatore di non indulgere in una deriva onirica, escapista, di mera piacevolezza, ma di permanere presente alla complessità delle cose.

 

E perché questo finale che nell’aumento di entropia finisce quasi inaspettatamente? Che sia un’analogia di come fluisce e finisce la vita stessa?

Le cose finiscono, non necessariamente in modo prevedibile: è il discorso, nel suo aspetto olistico, di flusso, di percorso, a non finire. “Inverse” è solo una forma, un momento del discorso che è The Text And The Form, e si concatena con gli altri momenti di questo discorso senza la necessità di completarsi in sé come fosse un’entità autonoma, separata. Più che l’interruzione, spero venga percepito l’aspetto di prosecuzione sotto altra forma. Rimuovendo la possibilità di affezionarsi troppo al singolo elemento del discorso, vi è maggiore possibilità che venga vissuto in profondità il percorso in sé, nella sua qualità varia e multiforme.

 

“You Are”: ogni cosa, ognuno di noi è meraviglioso. La splendida Antye Greie sembra rivelarcelo quasi fosse un segreto da svelare, e in fondo non ci pensiamo, sembra davvero sia un segreto da svelare, che sia questo brano, un manifesto del disco in quanto a rivelazioni?

La frase “everybody is beautiful” è purtroppo vera solo in potenza, ed è questionabile in molti casi, almeno allo stato delle cose. Ma se messa in correlazione col resto del testo di Antye è un invito a sapere chi si è, anche e soprattutto in nuce, e a non perdere la determinazione di voler raggiungere la propria forma più autentica, più piena. Se non si riesce ad intravedere la propria luce, rimane impossibile orientare il proprio percorso vitale nella direzione dello svelare e del far brillare questa luce. Non mi sento sicuro nel voler dare a questa frase lo status di manifesto dell’album, ma certamente rappresenta un elemento contenutistico che sono felice abbia uno spazio rilevante nell’album, soprattutto per la funzione che in primis ha avuto su di me.

 

Testo e forma. Il testo e la forma. Gli articoli determinativi sono fondamentali? Da una parte il contenuto, il messaggio, dall’altra l’estetica. Le due cose non vanno mai di pari passo, anzi, spesso sono foriere di battaglie. Che forma ha il tuo contenuto e che contenuto dai alle tue forme?

Nel giustapporre i due termini, si sprigionano vari aromi. Uno di questi suggerisce la possibile reciproca compenetrazione di testo e forma, una fusione dell’uno nell’altra. In un album in cui il testo è presente ma estremamente rarefatto, è naturale che la forma in sé si sveli foriera di nuovo testo, seppur non sotto forma di parola. Specularmente, essendo la parola così diluita, non può che venir apprezzata anche come forma tra le altre forme. Testo e forma giustapposti: si crea un’alchimia che li trasfigura, che ne svela proprietà sottili, spesso inespresse, sorprendentemente comuni ad entrambi. Una lenta e silenziosa reazione chimica che tende a consumarli creando l’inaspettato.

 

Alle spalle del suono di “Our Bcn Nights” sembrano stagliarsi i suoni di sobborghi e fabbriche che ovviamente neanche di notte si fermano, le voci passano come “fantasmi”, come spesso fanno le sensazioni della vita a cui non facciamo caso. Il caos e il metallo delle fabbriche sotto resta indifferente e prosegue dritto. Questa la mia lettura, la tua?

Mi sento profondamente onorato dal fatto che l’album propizi letture, ciò di per sé è un privilegio di cui sono immensamente grato. Lungo tutta “Our Bcn Nights” lavora in sottofondo il meccanismo di una scala mobile, una macchina che nel silenzio della notte produce la sua poesia sonora metropolitana. Insieme alle voci di passanti, sconosciuti, ognuno lì per motivi suoi, forse non così dissimili dai nostri. Tutto nella vita può apparire in un suo movimento avulso e incurante del resto, ma credo sia nostra prerogativa e occasione umana quella di cercare di riunire ogni cosa in una visione organica, in un sentimento partecipato, nel quale tutto si rivela pervaso di un’intelligenza e di una linfa comune e condivisa.

 

Incondizionato. “Unconditional”. Privo di condizioni. Il disordine organizzato della sua chiusa. Per me è questo il vero punto di incontro tra testo e forma, altro manifesto di questo disco, per me intendo.

Sono felicissimo che tu dia così tanto valore a “Unconditional”, che ho sempre temuto fosse di difficile decodificazione e potesse rimanere brutto anatroccolo. Lieto che poi non sia stato così, e tu me lo confermi ancora. “Unconditional” veicola forse più di altri brani un feeling emotivo di complicazione, ma effettivamente esprime nella sua chiusura (questo arpeggio di note gravi di chitarra acustica interferite dall’elaborazione digitale, ma non da essa sopraffatte) un senso di liberazione e di ri-organizzazione del disorganico, che dà pieno significato all’attesa necessaria per giungere lì, in quel punto. Esattamente ciò che sento di aver vissuto io per arrivare qui, all’adesso nella mia vita, verso cui sono così grato.

 

La vita è l’arte dell’incontro. Il grand hotel degli incontri chiude il disco. Eppure nel “disordine” delle strutture casuali (che comunque si concedono il lusso di ricorsi melodici) sembra non esserci spazio ad alcun incontro se non con la parte più nuda e viscerale di se. Questo disco che cosa ti ha lasciato incontrare?

The Text And The Form credo celebri la sconfitta della forza di volontà irrigidita e non comunicante, credo onori con pienezza un percorso di perdita e riconosca la scoperta di vita e grazia laddove non immaginavo ci potessero essere vita e grazia.