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REVIEWSLE RECENSIONI
08/10/2021
Salmo
Flop
Compatto, privo di fronzoli, solido ed omogeneo. Flop è il simbolo dell'uscita da un periodo duro, ma che ha permesso a Salmo di ricordare al mondo dal rap di che pasta è fatto. Fan di Hellvisback e di Midnite fatevi sotto, Salmo è tornato.

Anche Flop, come lo fu tre anni fa Playlist, è un titolo che parla e che contiene mille sottintesi. C'è senza dubbio una buona dose di autoironia, ma credo che in gran parte costituisca un tentativo di esorcizzare quella paura dello scomparire troppo in fretta che è un po' tipico del Rap Game, almeno nella sua declinazione italiana. Non è difficile capirne le ragioni, che vanno dall'accelerazione imposta dalla post modernità, ad un'attenzione spesso eccessiva ai numeri, alla ricerca spasmodica del "sold out" a tutti i costi, ad un pubblico che è da sempre più legato al genere piuttosto che al singolo artista.

Il Rap italiano, sottoinsieme di un genere che già di per sé non ha ancora goduto di una vera e propria storicizzazione (ultimamente si sta rimediando, per fortuna) vive di un ricambio generazionale continuo, e non è così strano l'essere bollati come "superati" dopo appena due o tre dischi. Il mito delle origini, unitamente ad una narrazione egocentrica che corteggia una sempre più mitica e indefinibile "street credibility", aveva colpito Salmo sin dai tempi di Hellvisback: ironicamente il disco della definitiva consacrazione, ma lui aveva già alle spalle un mezzo capolavoro come Midnite ed era difficile muoversi liberamente.

A 37 anni, nonostante ci siano colleghi blasonati che hanno passato i quaranta, è dunque possibile sentirsi troppo vecchi per una musica ascoltata soprattutto dai ragazzini.

Non è un caso quindi che la title track sia anticipata da uno spoken dove le indubbie potenzialità dell'artista e i clamori scintillanti dei primi successi lasciano il posto ad una caduta che si descrive tanto più tremenda quanto priva di ogni solennità (“Nessuno tsunami, niente deflagrazioni, botti, emozioni, niente. Solo una piccola, semplice sincope sonora. Flop”).

Flop è stato preceduto da una campagna stampa decisamente sobria per gli standard di queste produzioni: manifesti giganti appesi in sordina solo qualche giorno prima, poca attività social, nessun singolo apripista (questa sì che è grossa), nessuna anticipazione sui featuring, se non che sarebbero stati quattro.

Poi, appena un paio di giorni dopo l'uscita, una breve story dove Lebonski (questo il nome di Salmo su Instagram), ha chiarito meglio il contesto da cui è nato questo lavoro: il primo lockdown, l’annullamento dei concerti, tra cui anche quella data a San Siro che era stata pensata come definitivo atto di consacrazione, la rottura con la sua ragazza, il ritorno della depressione, gli psicofarmaci. È stato un periodo duro ma Flop gli ha salvato la vita, ha scritto con grande sincerità.

Lasciate alle spalle le polemiche per il concerto “abusivo” organizzato nella sua Olbia (se ci saranno conseguenze giudiziarie lo vedremo in seguito) Maurizio Pisciottu torna dunque a far parlare la musica ed è solo da questa che dovremmo giudicarlo.

Flop si configura nel complesso come un lavoro più solido ed omogeneo del precedente: laddove Playlist sperimentava coi Beat (ricordiamo che un certo tha Supreme si fece conoscere al grande pubblico proprio in quell’occasione) e provava soluzioni anche parecchio eterogenee, questo appare decisamente più compatto e privo di fronzoli. La produzione è in grandissima parte affidata a Luciennn, talvolta coadiuvato da El Verano, cosa che dimostra la volontà di rimanere in famiglia, limitando al minimo indispensabile i coinvolgimenti esterni.

Anche i featuring, da sempre fondamentali in ambito Hip Hop e ultimamente cresciuti a dismisura (anche e soprattutto a causa delle logiche dello streaming, ma questa è un’altra faccenda) sono più che centellinati. E a questo punto forse conviene partire da qui: “Ghigliottina”, con Noyz Narcos e “La chiave”, con Marracash, sono tra gli episodi migliori e costituiscono un ottimo esempio delle scelte di produzione: suono secco, impronta nel complesso scarna, durezza dei Beat a conferire un’impronta Old School, non distante da certe cose di Midnite. I due ospiti sono nomi pesanti del Rap Game e la loro prova non li smentisce; ruvido e irriverente Noyz, più riflessivo Marra, che oltretutto fa le sue barre sopra una base decisamente fantasiosa, con Salmo che limita la sua parte al solo ritornello cantato.

“YHWH” si avvale del contributo di Guè Pequeno ed è anche questa una traccia chiave dell’album. Al di là della prova dell’ex Club Dogo, sempre impeccabile ma ormai così ancorato alla sua immagine gangsta da risultare un pelino stucchevole, la vera notizia è la produzione di MACE, che campiona una versione corale della “Total Praise” di Richard Smallwood, inserendo così il pezzo all’interno dell’universo Gospel: il risultato è solo apparentemente blasfemo (anche se cantare “Sono il nuovo Yahweh” non rende il suo autore un campione del politicamente corretto) ma è comunque in linea con le tematiche portanti del disco, come vedremo tra poco.

L’ultimo ospite è Sha’ri, che è anche l’unica della nuova generazione: la ragazza goriziana, che proviene dai Talent e che per il momento non vanta certo un curriculum da far drizzare le antenne, presta la sua voce ad uno dei pezzi meno convincenti, sulla falsariga de “Il cielo nella stanza” che appariva su Playlist, ma decisamente più stucchevole.

Il lato più Pop e melodico è ben rappresentato anche da “Kumite”, che ha lo zampino di Takagi & Ketra e si sente benissimo: i fan più oltranzisti non la potranno soffrire ma bisogna dire che è un brano magistralmente costruito (come quasi tutti quelli a firma del duo, anche se capisco che faccia molto più figo ricoprirli di insulti), nonostante perda qualche colpo sui ritornelli.

Il resto del lavoro si divide tra bordate dal tiro pazzesco (“Antipatico”, “Mi sento bene”, “Che ne so”, “Fuori di testa”, quest’ultima assolutamente irresistibile) ed episodi in cui l’anima più tradizionalmente rock di Salmo esce a piè sospinto (“Criminale”, “Hellvisback 2”, “Flop”, la blueseggiante “A Dio”), con le chitarre che diventano protagonisti e la batteria che spinge.

Dal punto di vista dei testi, più o meno è il solito Salmo: da lui non ci si può aspettare chissà quale introspezione o l’affronto di tematiche che non siano il suo rapporto con il successo o certi giudizi un po’ superficiali sulla politica. Detto questo, le barre di questo lavoro ci mostrano un autore più maturo, che non ha timore di mostrare le proprie paure e che infarcisce queste canzoni di riferimenti alla religione e in particolare alla resurrezione di Cristo, non tanto come pretesto per prodursi in dichiarazioni sacrileghe (c’è solo un verso su Padre Pio che è un filo al limite), quanto per affrontare il tema del successo ed esorcizzare la paura del fallimento. Se l’essere adorato da migliaia di persone dà l’illusione di essere Dio, rimane comunque l’esigenza di rivolgere preghiere a qualcuno: se il Dio che ha incontrato attraverso il catechismo e la chiesa ufficiale non ha mantenuto le sue promesse (su questo non permangono dubbi) resta l’esigenza di non sentirsi solo, perché sia che si stia in alto sia che si sprofondi, la fama rimane una brutta faccenda da gestire.

Che sia o meno il miglior disco di Salmo non sono in grado di dirlo. Indubbiamente è la miglior risposta che poteva dare sia a chi non aveva digerito Playlist, sia a chi lo cominciava a considerare troppo vecchio per rimanere a certi livelli. Il “ritorno del Salmone sulla traccia”, come canta nell’iniziale “Antipatico”, non avrebbe potuto essere più convincente.