La crescita esponenziale in popolarità che i Fontaines d.c. stanno avendo negli ultimi anni è visibile non tanto nelle venue sempre più capienti che si trovano a riempire, quanto in un ricambio di pubblico a dir poco sorprendente: facendo riferimento alle date italiane, se ancora tre anni fa a Milano, durante il tour di Skinty Fia, il posto era zeppo di cinquantenni reduci dal Post Punk, già questo autunno all’Alcatraz c’erano parecchi ragazzini, una quota che è divenuta decisamente preponderante in questo giro estivo di show open air.
Delle tre date in programma nel nostro paese, Bologna, Roma e Milano (anche se per la precisione saremmo a Sesto San Giovanni), mi sono recato a quest’ultima e sono rimasto davvero stupito nell’osservare l’altissimo numero di giovani presenti: l’età media del pubblico, così a colpo d’occhio, mi è sembrata assestarsi sui 20-25 anni, e questo, più di ogni altro dato, certifica l’ascesa oramai definitiva della band irlandese nel novero delle nuove realtà a dimensione mainstream.
Un altro dato significativo va individuato nella reazione ai vari brani presenti in scaletta: se in passato le ovazioni più rumorose erano destinate agli estratti da Dogrel, adesso quei pochi brani dal debutto che ancora resistono nella setlist, sono stati accolti per lo più tiepidamente, laddove invece sono stati proprio i pezzi dell’ultimo disco a suscitare gli entusiasmi più sfrenati.
Molto chiaro, a questo punto, quello che è successo: la stragrande maggioranza dei presenti ha scoperto il gruppo con Romance, che non a caso è il lavoro che più ha fatto riscontrare un salto evolutivo nel cammino artistico dei nostri.
Ci sarà tempo di soffermarsi su una scelta che sta già provocando il disappunto di diversi addetti ai lavori, complice forse anche la fisiologica gelosia per una band che, da esclusiva scoperta degli appassionati, è divenuta ormai di publico dominio; adesso concentriamoci sul concerto in sé, che di materiale ce ne sarebbe parecchio.
A Milano i posti dove organizzare concerti sono pochi e, quando si parla di grandi capienze nel periodo estivo, la situazione diventa al limite dell’imbarazzante: il Carroponte, da questo punto di vista, avrebbe dalla sua il fascino indiscusso dell’archeologia industriale e negli anni passati è stato anche teatro di stagioni memorabili; nel periodo della nuova gestione, però, le cose non vanno proprio benissimo. Ai volumi al limite del ridicolo, all’area lunga, strettissima e con la visione limitata dalla torretta dello spazio mixer e dalle varie postazioni bar poste lateralmente, questa sera pare si siano aggiunti anche problemi di tipo logistico relativi alla gestione del pit (che era a capienza, non a pagamento; io mi sono comodamente sistemato all’interno ma ho letto di gente pigiata come sardine nello spazio appena fuori, mentre dove eravamo noi, in effetti, si stava piuttosto larghi) e alle operazioni di ingresso.
Vero che in Italia siamo tutti piuttosto portati alla lamentela; altrettanto vero, però, che negli ultimi anni al Carroponte ho sempre visto questo tipo di problemi per cui forse qualche riflessione in più andrebbe fatta.
Quando gli shame fanno il loro ingresso c’è ancora la luce del sole e, nonostante il boato e l’entusiasmo che li accoglie, l’impressione è che questo pubblico così generico e poco navigato, non abbia la più pallida idea di chi siano. Del resto, se anche un importante sito musicale qualche settimana fa ne ha parlato come se fossero una band semi sconosciuta, qualche problemino ce l’abbiamo. La band di Londra non avrà ancora raggiunto le masse (e non credo riuscirà mai a farlo, a giudicare dal percorso che sta seguendo) ma ha esordito nel 2018, tra i primissimi act a dar vita a quella nuova ondata di “Post Punk” a cui anche i Fontaines d.c. hanno inizialmente preso parte.
Il gruppo di Charlie Steen è come sempre su di giri e dà vita ad una performance brutale e selvaggia, che punta tutto sulla irruenta fisicità dei brani e su una presenza scenica spesso debordante (le corse e le capriole del bassista Josh Finerty sono ormai un marchio di fabbrica). Nella mezz’ora a loro disposizione riescono a coinvolgere a dovere il pubblico, che pur non conoscendoli mostra di divertirsi parecchio e supporta a dovere gli stage diving indiavolati di Steen (che è un grande frontman, occorre dirlo).
Il punto debole, ed è praticamente sempre il solito, è costituito dal songwriting: seppur con interessanti guizzi, non sono ancora riusciti a sviluppare una personalità spiccata e i tentativi recenti di uscire un po’ dal modello “assalto frontale” non hanno sempre dato i frutti sperati. Nel finale arriva il singolo “Cutthroat”, title track del nuovo album in uscita a settembre (sarà il loro quarto) ed è evidente un certo movimento verso un suono più catchy e ritmato. Si tratta di un buon brano e chissà, potrebbe essere il preludio di un salto di qualità. Peccato per i volumi perché un set così andrebbe fruito in tutt’altra situazione.
I Fontaines d.c. attaccano con “Here’s the Thing”, proposta nel ruolo di opener al posto di “Romance” per la seconda volta in questo tour. È uno degli episodi più divisivi dell’ultimo disco, con il suo andamento ruffiano e smaccatamente Pop, e vedere il pubblico scatenarsi e cantare a squarciagola il ritornello costituisce la fotografia perfetta dello stato attuale della band.
Dal vivo, peraltro, gli irlandesi sono cresciuti parecchio. L’innesto di Chilli Jesson ai Synth, tastiere ed elettronica è stato fondamentale per ispessire il suono, la chimica tra i vari membri è ormai perfetta e la padronanza delle dinamiche dei vari episodi sembra sempre di più un fatto acquisito.
Francamente, non capisco tutte le critiche ai loro live show che continuo a leggere in giro: senza dubbio ci sono band più efficaci e d’impatto (i Murder Capital su tutti, ma anche gli Idles o gli Squid) ma non si può dire che i nostri non posseggano tiro, potenza e fascino evocativo. Grian Chatten ha il carisma e la personalità di una rockstar, Tom Coll è un ottimo batterista e Carlos O’Connell sembra finalmente aver messo a tacere i propri demoni, questa sera è apparso rilassato ed è autore di una performance impeccabile. Bisogna forse considerare che il loro repertorio non si è mai prestato alla fruizione immediata: se cercate l’energia primigenia bisogna andare sui pezzi di Dogrel, ruvidi e ancora pervasi di spirito Punk (graditissimo, peraltro, il ripescaggio di “Hurricane Laughter”, monolite denso di scariche elettriche) ma questa sera sono solo tre, per cui è più che normale che, per quanto energica, la performance dei nostri contenga anche tante sfumature più cerebrali e meditative.
Si prenda “Big Shot”, scura e magniloquente, o il sontuoso dramma politico-esistenziale di “I Love You”, o ancora le atmosfere a tratti malsane di “Nabokov”: sono i Fontaines d.c. al loro apice compositivo ma non si tratta di brani di facile presa, per apprezzarne l’esecuzione sopraffina occorre anche fermarsi un minimo ad ascoltare.
È comprensibile che sia Romance a farla da padrone, questa sera con 8 brani su 11: i presenti vanno sempre in visibilio, per quanto mi riguarda la faccenda è un po’ più complessa. Il disco è ottimo (lo scrissi in sede di recensione e non è questo lo spazio per ripetersi), con qualche pezzo più debole di altri, e durante il concerto un po’ si sente: “Desire”, che pure dal vivo acquista una maggiore robustezza, rimane poca cosa; dall’altra parte “In the Modern World”, che è una delle loro migliori in un’ipotetica “svolta Pop”, sul palco continua a mancare un po’ di cattiveria, con le tastiere fin troppo preponderanti. Benissimo “Bug” e “Death Kink”, che sono anche quelle più in linea col loro marchio di fabbrica, furbetta “Favourite”, che però dice sempre la sua (ed è ormai una delle più apprezzate dai fan, credo che diventerà un classico inamovibile), mentre “Starbuster”, che qui ha chiuso il concerto, continua ad essere un pezzo della madonna e continua a spaccare dal vivo.
Discorso diverso, purtroppo, per i due pezzi “nuovi”, provenienti cioè dalla Deluxe Edition del disco: “It’s Amazing to be Young” è leggera leggera, e sono terrorizzato da quello che potrebbe succedere se decidessero di avventurarsi definitivamente su questa strada; “Before You I Just Forget” è un tentativo di incorporare l’Hip Hop nella loro scrittura ma non funziona come funziona“Starbuster”, rimane moscia per gran parte del tempo, nonostante Conor Deegan III sia convincente nel flow delle strofe.
Ecco, direi che se ci sono delle nubi all’orizzonte, la ragione andrebbe cercata qui. Al Carroponte i Fontaines d.c. hanno fatto un concerto bellissimo, rovinato solo dai volumi osceni e da una location che non ha permesso a chi si trovava dietro di godersi appieno l’esperienza. In ogni caso, credo che oggi questa band sia inattaccabile, si meriti davvero il successo che sta avendo, e pazienza se la passano su Virgin Radio e la vanno a vedere i concorrenti di X Factor (ce n’era qualcuno nel palco rialzato riservato ai Vip) e quelli che ascoltano solo i Foo Fighters e i Guns ‘N Roses: per una volta potremmo dire che il successo commerciale sia proporzionato alla qualità.
Finora dunque, tutto bene. Quello che preoccupa, piuttosto, è ciò che potrebbe succedere dopo: dove andranno i Fontaines d.c., nella loro ormai inesorabile ascesa? Rimarranno sulla via tracciata da Romance, magari accentuando solo un po’ di più l’elemento radiofonico, oppure abbandoneranno ogni soglia di pudore per divenire la brutta copia dei Coldplay? Ecco, quest’ultimo scenario è raccapricciante ma facciamo che ci penseremo quando e se succederà.
Al momento rimangono una grande band, senza dubbio tra le più importanti degli ultimi anni. Dovesse finire tutto, quello che hanno costruito fino a qui nessuno glielo porterà via.
Photo credits: Jacopo Bozzer