Due episodi credo siano da richiamare, al fine di introdurre il nuovo disco degli Shame. Il primo risale all’agosto del 2021, ultima serata del TOdays Festival di Torino, tornato alla grande dopo la chiusura del 2020, seppure ancora in regime di restrizioni, tra Green Pass, sedie e capienze ridotte. Fu un’edizione dominata per forza di cose da nomi italiani ma si cominciarono a vedere anche i primi artisti stranieri, per lo meno quelli che sopravvissero alle cancellazioni dell’ultimo minuto.
Gli Shame chiusero di fatto il festival, si trattava della loro prima esibizione all’estero da più di un anno e fu una cosa che definire devastante sarebbe un eufemismo. Bastarono appena tre secondi del primo brano per far alzare tutti in piedi, senza che gli addetti alla sicurezza, fino a quel momento rigidissimi, potessero fare nulla per impedirlo. Fossimo stati in condizioni normali, si sarebbe probabilmente visto un pogo di dimensioni leggendarie. Maurizio Blatto, che ha rievocato quel concerto su uno degli ultimi numeri di Rumore, dice di non ricordarsi bene, ma ad un certo punto gli è parso di vedere il bassista Josh Finerty prodursi in un salto mortale. Dubito che leggerà mai questo pezzo ma, nel caso improbabile in cui dovesse farlo: sì, ti ricordi benissimo, l’ho visto anch’io.
Quella sera il pubblico di Torino ha visto in azione il lato più crudo e selvaggio della band britannica, quello che ha partorito un esordio come Songs of Praise, nel 2018, e che era in parte contenuto anche nel successivo Drunk Tank Pink, uscito in piena pandemia e per forza di cose mai portato veramente in giro sui palchi.
Il secondo episodio risale all’anno successivo: Primavera Sound 2022, anche qui durante l’ultima serata. È ormai tarda notte e mi sto avviando verso uno dei palchi periferici per assistere all’esibizione dei Boy Harsher. Arrivo un po’ prima e su uno stage poco distante trovo gli Shame che stavano concludendo il loro set. Avevo rimosso che ci sarebbero stati anche loro (in un festival con così tanti gruppi a giornata può capitare) e mi sono fermato ad ascoltare qualche minuto. È partito un pezzo nuovo, che non assomigliava per nulla al tipico sound del gruppo, una sorta di ballata cupa, mi pare addirittura con dei Synth in evidenza. Non so cosa fosse ma oggi che il nuovo disco è uscito, non mi pare improbabile potesse trattarsi di “Adderall”; che in effetti, stando alla setlist che si trova online, fu suonata proprio verso la fine.
In questi due aneddoti di per sé insignificanti sono riassunti i due lati principali degli Shame: la furia sonora, tipica dell’ambiente Punk da cui provengono, e lo spazio concesso al rallentamento e all’elaborazione delle strutture, un aspetto che in parte ritrovai un paio di mesi dopo, quando li vidi ad Amsterdam in apertura ai Pearl Jam.
Food for Worms è il terzo lavoro della band di South London, tra le prime ad uscire da quella scena gravitante attorno al Windmill, di cui tanto si è già scritto (pare che ci siano ancora parecchi gruppi che ci suonano ma in qualche modo i protagonisti dell’epoca avvertono già uno scarto generazionale). Si è parlato a lungo di ritorno del Post Punk, la maggior parte dei gruppi a cui quell’etichetta era stata appioppata non se ne è dimostrata entusiasta, gli Shame invece non hanno niente da obiettare a riguardo. Anche per loro, tuttavia, pare essere giunto il momento di fermarsi a considerare la direzione da prendere, nella consapevolezza che ad una band è richiesto anche di crescere e di posizionarsi, di trovare una propria identità, e che l’entusiasmo per gli esordi folgoranti dura appunto lo spazio in cui resiste un afflato sentimentale.
E così, dopo che Drunk Tank Pink, cupo e ripiegato su se stesso a riflettere il periodo difficile del cantante Charlie Sheen, aveva comunque mostrato qualche segno di evoluzione, specie nella minore linearità di certi brani, questo nuovo disco pare essere quello della auspicata maturità.
È comunque interessante che quello che al momento appare come il capitolo più variegato della loro discografia, quello più difficilmente incasellabile, sia quello che li ha visti lavorare in maniera totalmente spontanea: come hanno dichiarato di recente intervistati da Rumore, hanno detto di aver composto i brani di getto, tenendo buono tutto ciò che li convinceva ad un primo ascolto, senza troppi condizionamenti o ripensamenti, come era avvenuto in precedenza. Hanno anche scritto il materiale in fretta, ponendosi come obbiettivo quello di avere tutti i brani pronti in occasione degli ultimi due concerti che avrebbero tenuto nel 2021: un metodo particolare, ma hanno spiegato che sotto pressione lavorano meglio. La conseguenza è stata poi che le nuove canzoni sono state provate in lungo e in largo nel corso dei concerti del 2022, abbastanza logico quindi pensare che una volta giunto il momento di entrare in studio le idee fossero ben chiare.
Dietro la consolle è arrivato Flood, che aveva già legato il suo nome a questo nuovo Risorgimento inglese producendo entrambi i dischi dei Murder Capital. Un sodalizio che, a sentire Sheen e compagni, ha fatto molto bene, anche perché il modo di lavorare del famoso sound engineer non è poi così diverso da quello che i suoi nuovi clienti avevano appena finito di darsi: provare qualunque soluzione, sempre e comunque.
Il risultato finale può essere spiazzante, con una traccia come “Fingers of Steel” che apre le danze in maniera stranamente Alternative Rock, alternanza tra piani e forti su strofe e ritornello, un chorus stranamente melodico e ruffiano. È uno degli esperimenti, chiamiamoli così, che gli Shame hanno completato, all’interno di un album che offre senza dubbio maggiore spazio alla melodia e alla coralità (le parti vocali sono molto più sofisticate e curate, con un grande ricorso alle backing vocals) e che presenta un numero sorprendentemente alto di ballad o di composizioni che ci assomigliano: la già citata “Adderall”, che ha comunque un ritornello piuttosto potente, seppure di facile presa, “Orchid”, che fa sfoggio di chitarre acustiche per gran parte della sua durata, persino “Yankees”, che esplode nel finale ma che possiede ugualmente un certo retrogusto Folk.
Ci sono comunque i soliti brani nel loro stile, quelli che si richiamano direttamente alla quota più selvaggia ed abrasiva del passato repertorio: “Six-Pack” è pura furia Punk e, nonostante abbia ritmiche più intricate ed una struttura maggiormente complessa, non avrebbe sfigurato sul primo disco; “The Fall of Paul” è una scura schiacciasassi vicina alle cose di Drunk Tank Pink, e la stessa cosa si può dire per “Alibis” e “Burning By Design”, nel complesso vicine al loro marchio di fabbrica e forse proprio per questo meno interessanti.
Le cose in assoluto migliori, che sono poi anche quelle più insolite, arrivano alla fine: “Different Person”, che anche a parere dei diretti interessati è il brano più complesso che abbiano mai composto, inizia lenta e narcotica per poi crescere in una sorta di ritmo jazzato e vagamente Prog, con l’aggiunta di fraseggi chitarristici e parti corali, una struttura sempre cangiante che nel finale, quando arriva un’accelerazione improvvisa, sembra addirittura richiamare certe divagazioni schizzate tipiche dei Black Midi. Un brano dalla teatralità sorprendente, che, come già dichiarato dagli stessi autori, sarà senza dubbio il punto di partenza per l’evoluzione futura del quintetto.
Sul lato opposto, “All the People” è aperta e solare, un crescendo di intensità e liberazione, un ritornello reiterato e contagiosamente catartico, anche qui lo spettro di un certo Rock alternativo di marca canadese (fate i Broken Social Scene, se proprio non volete scomodare gli Arcade Fire) a fare capolino, per un epilogo davvero sorprendente, uno stato d’animo quasi gioioso che mai ci saremmo aspettati da questi ragazzi.
Avevano detto di essersi semplicemente voluti godere “la semplicità di una buona idea” e bisogna dire che hanno fatto centro. Food for Worms non è un lavoro esente da difetti ma è un passo avanti deciso; dal momento che si sta parlando di un act giovane, è senza dubbio il dato che conta di più.