Vent’anni fa esatti, dopo una breve gavetta fatta di qualche Ep e un album autoprodotto (Nothing Gold Can Stay), i New Found Glory sono saliti alla ribalta con il loro secondo (omonimo) album. Un lavoro che fin da subito ha fatto scuola e che ha lanciato sia il produttore Neal Avron, da lì in poi sempre più richiesto (Yellowcard, Fall Out Boy, Weezer, Linkin Park, The Used, Twenty One Pilots, e l’elenco potrebbe continuare), sia i New Found Glory stessi, che hanno influenzato il suono di un’intera generazione (Pete Wentz ha raccontato che per il primo disco dei suoi Fall Out Boy voleva ottenere a tutti i costi lo stesso suono di New Found Glory), raccogliendo allo stesso tempo, assieme a band come Good Charlotte e Simple Plan, l’eredità dei loro predecessori, blink-182 e Green Day (che al momento stavano vivendo una fase calante) su tutti, capaci per primi di innestare la freschezza e la spensieratezza delle melodie pop su un impianto tipicamente punk rock.
Ma non di solo pop punk hanno vissuto i New Found Glory. Dopo dischi baciati dal successo come Sticks and Stones (2002) e Catalyst (2004), dove ripetevano e ampliavano la formula che li aveva resi celebri, e uno commercialmente meno fortunato ma molto amato dai fan come Coming Home (2006), la band originaria di Coral Springs, Florida, ha via via fatto emergere le proprie origini hardcore, prima nell’Ep Tip of the Iceberg (2008), nel quale a brani originali si alternavano cover di Gorilla Biscuits, Shelter e Lifetime, e poi nell’album Resurrection (2014), il primo registrato nella nuova formazione a quattro, dopo l’allontanamento del chitarrista Steve Klein.
È quindi naturale che dopo un disco come Makes Me Sick (2017), in cui i NFG hanno flirtato con il pop e giocato con i sintetizzatori, e un divertissement come l’Ep di cover From the Screen to Your Stereo 3, uscito l’anno scorso, Jordan Pundik (voce), Ian Grushka (basso), Chad Gilbert (chitarra) e Cyrus Bolooki (batteria) abbiano deciso nuovamente di dare maggior spazio ai riff di chitarra e alla batteria incalzante, chiudendosi in sala prove con l’obiettivo di comporre un album più scarno e diretto dei precedenti.
Registrato presso i Castle Recording Studios di Franklin, un vero e proprio maniero costruito poco fuori Nashville agli inizi degli anni Trenta dal gangster John P. Welch come punto di ristoro durante i suoi viaggi tra Chicago e la Florida la cui storia meriterebbe un articolo a parte, Forever + Ever x Infinity è stato realizzato dai NFG assieme a un veterano del calibro di Steve Evetts, un produttore eclettico (The Dillinger Escape Plan, The Cure, The Wonder Years) con cui la band avrebbe voluto collaborare fin dagli esordi, avendo lavorato ad alcuni dei dischi che ne hanno forgiato l’immaginario, come Can’t Slow Down e Through Being Cool dei Saves the Day, Progression Through Unlearning degli Snapcase e Jersey’s Best Dancers dei Lifetime.
Il risultato è senza dubbio uno dei migliori album dei New Found Glory dell’ultimo decennio, dove alle melodie a presa rapida, vero e proprio marchio di fabbrica della band, e alle chitarre costantemente in primo piano, si innestano sottotraccia degli agrodolci inserti di nostalgia e rimpianto, in un continuo saliscendi emotivo dove, all’euforia data dalla musica, si alternano riflessioni sulle cicatrici che, alla soglia dei quarant’anni, iniziano a farsi visibili sulla pelle dei vari membri della band. Per cui non è un caso se dopo l’uno-due iniziale di “Shook By Your Shaved Head” e “Greatest of All Time”, a partire dalla terza traccia (“Double Chin for the Win”), Jordan Pundik cominci ad articolare, canzone dopo canzone, una lunga riflessione sue relazioni interpersonali, siano esse guidate dall’amore (“Stay Awhile”), dalla volontà di salvare una storia giunta ormai al capolinea (con una mossa disperata come in “More and More” o con un ultimatum come in “Do You Want to Settle Down”), oppure dall’amicizia (“Nothing to Say” e “Himalaya”). Tutte esperienze – è facile immaginare – frutto del periodo di difficoltà vissuto da Chad Gilbert (autore di gran parte delle canzoni) in seguito al divorzio con Hayley Williams dei Paramore, dopo dieci anni di relazione.
Combinando la loro consueta carica melodica con l’energia del punk, dell’hardcore e del post-hardcore, i NFG hanno realizzato, secondo Gilbert, «l’album che i nostri fan si attendevano da noi». E in un certo senso è proprio così, perché se è vero che in tutta la discografia della band non esiste un disco simile a Forever + Ever x Infinity, è altresì vero che i quattro ragazzi della Florida hanno saputo realizzare un album al cento per cento tipicamente à la New Found Glory, senza abbracciare a tutti i costi i trend del momento (come fatto in Makes Me Sick) e senza farsi snaturare troppo da un produttore dal curriculum importante come Steve Evetts, che li ha invece stimolati a dare il meglio di loro stessi, fragilità incluse.
Con una scena Pop Punk che è completamente cambiata nel corso degli anni, passando dai fasti del Vans Warped Tour e i video in rotazione costante su MTV alla necessità di una continua attività live per far quadrare i conti (che ora però rischia di venire irrimediabilmente compromessa dallo stop forzato a causa del COVID-19, dal momento che se c’è un concerto dove il distanziamento è inapplicabile è proprio uno Punk), i New Found Glory hanno fatto quello che riesce loro meglio: rimboccarsi le maniche come agli esordi, rispolverare la cara vecchia etica D.I.Y. e impegnarsi al massimo per scrivere il miglior disco possibile. E con Forever + Ever x Infinity ce l’hanno fatta, regalando ai propri fan uno dei loro lavori migliori, per continuare – con la massima onestà e senza filtri – un dialogo iniziato in un garage della Florida ben ventitré anni fa.