Il mito che ritorna, o l’eterno ritorno del mito
Ci sono sogni complessi che rischiano di sconfinare nell’ossessione. Moby Dick primordiali dell’inconscio, fantasie infantili che affondano le radici nel reale stravolgendolo, fino a trasformarlo in un incubo distorto e straniante. E poi ci sono, infine, anche sogni che emergono da una zona d’ombra tra buio e luce, veglia e sonno. Nei sogni, in termini psicanalitici, dialoghiamo con il nostro inconscio accogliendo domande che nemmeno sappiamo di volerci porre, come in parte suggeriva anche Fox Mulder in un’epica puntata di X-Files.
Protagonista della nostra riflessione è un mito, inteso come un archetipo ancestrale che è tornato, silenzioso e inquietante, nel corso degli anni a turbare i sogni dei lettori ma anche (e soprattutto) degli spettatori. Protagonista è anche un medium antico (ma non troppo) che proprio nel 2025 ha compiuto ben centotrenta anni. Cifra tonda, un compleanno da celebrare. E protagonista è anche un regista visionario come Guillermo del Toro, perdutamente innamorato dei mostri e delle proprie creature di celluloide, coadiuvato da un cast (composto da Oscar Isaac, Jacob Elordi, Mia Goth e Christoph Waltz) che ha creduto in un sogno (folle, ma non troppo) seguendolo fino in fondo, e mettendo in gioco tutto se stesso per poterlo realizzare, per rendere infine possibile quel sabba di ombre danzanti sullo schermo d’argento.
Tutto iniziò in una notte buia e tempestosa di giugno…
Come nascono certe storie lo ricordano tutti, soprattutto i loro autori, anzi… creatori. È la stessa Mary Wollstonecraft Shelley che ne racconta la genesi del suo romanzo dopo un incubo, avvenuto nelle prime ore del 16 giugno 1816, durante una piovosa estate svizzera:
«I saw the hideous phantasm of a man stretched out, and then, on the working of some powerful engine, show signs of life, and stir with uneasy, half vital motion… His success would terrify the artist; he would rush away from his odious handy-work, horror-stricken… and he might sleep (…) He sleeps; but he is awakened; he opens his eyes; behold the horrid thing stands at his bedside, opening his curtains, and looking on him with yellow, watery but speculative eyes. I opened mine in terror»[1].
Ed è già chiaro fin da questo momento, quando l’incubo ha lasciato il terreno del sogno, sconfinando nel reale tanto da graffiarlo, facendo sanguinare la copiosa immaginazione di Mary, che Frankenstein non sarà solo un romanzo pioniere del genere, ma un’opera in grado di aprire la strada alla moderna consapevolezza sci-fi, pronta ad instillare orrore (e atmosfere gotiche) nelle teorie scientifiche più all’avanguardia del XIX secolo.
Il romanzo della Shelley nasce nelle crepe della psiche, permettendo alla sua autrice di rielaborare (attraverso la creatività e la scrittura) ben due lutti che l’avevano segnata: la perdita della prima figlia (morta così presto da non poterle dare un nome, esattamente come la Creatura del barone) e la scomparsa traumatica di sua madre, dopo undici giorni di lunga agonia. Inoltre, secondo interessanti studi condotti da Sandra Gilbert e Susan Gubar[2], il “mostro” sarebbe una “donna sotto mentite spoglie”: la sua mostruosità, per la stessa Shelley, era un transfert di quella legata alla percezione del mondo femminile nell’epoca coeva.
Così, tra Galvani e Darwin, si fanno strada la psiche e l’inconscio: la storia del barone Victor Frankenstein e della sua Creatura è figlia dell’irrazionale, del sonno della ragione che trasforma le ombre in sagome proiettate contro uno schermo o, più semplicemente, in incubi e mostri. Creature, quest’ultime, verso le quali è possibile provare amore, perché in fondo altro non sono che tele bianche sulle quali proiettare l’irrazionale che ci accompagna; tele bianche nell’oscurità, proprio come schermi d’argento sui quali proiettare le illusioni del cinematografo.
Da sempre, infatti, i mostri della Universal Classics (ma non solo) – con film che coprono un periodo compreso tra gli anni ’20 e il 1956 – sono visti come outsider pronti a sovvertire uno status quo ideale, nel quale irrompono per distruggerlo e alterarlo, prima che quest’ultimo venga riaffermato con la vittoria finale. Outsider che incarnano le paure, sussurrate e recondite, di tutti coloro che vengono perseguitati e ostracizzati per il loro credo religioso, per l’orientamento sessuale, per il genere al quale appartengono, per il credo politico o le malattie (mentali ma anche fisiche) contro le quali combattono o con le quali convivono.
E il microcosmo filmico non è altro che un doppelgänger della società “perfetta”, che ripudia e combatte l’imperfezione e “l’altro” fino a sconfiggerlo, allontanandolo per sempre dal proprio ideale. Incredibile ma vero però, anche nei casi che vedono difficile un’immediata empatia nei confronti dei mostri protagonisti, gli spettatori dei film Universal (e non solo: diciamo tutti gli horror-addicted) finivano e finiscono per provare “simpatia” (rubando l’etimologia al greco sympátheia e l’accezione inglese di pietà, comprensione e solidarietà) nei confronti degli outcast protagonisti, di quegli outsider alla ricerca di un posto in un mondo ostile, rivendicando la propria identità unica o la necessità di trovare se stessi ad ogni costo.
Doppelgänger perturbanti
I rimandi, così come le similitudini e le metafore (semantiche ed estetiche) attraversano la versione di Frankenstein firmata da Guillermo del Toro fin dai primi minuti, con febbrile inquietudine sospesa tra la forza di un immaginario privato, personale, frutto delle proprie fantasie (e incubi) da regista, e ispirazioni esterne che lo hanno permeato, definendone infine lo stile. Se la Shelley raccolse i frammenti scomposti della sua epoca adattandoli alla propria causa letteraria, il regista messicano trasforma invece Frankenstein nel transfert di un’infanzia emotiva da outsider e in una summa compendiaria del proprio cinema, manifesto di una nutrita produzione perpetuata fino ad oggi.
La poetica dei mostri, ovviamente, è l’elemento più evidente che attraversa, come un fil rouge, la maggior parte dei film che compongono la cinematografia del regista: creature fragili e smarrite, misfit naif e outcast fuori posto in un mondo popolato spesso da uomini crudeli, che fanno sorgere un dubbio: chi sono, alla fin fine, i veri mostri? Quelli in giacca e cravatta, ben vestiti e firmati di tutto punto, hanno risposto in coro il regista e Jacob Elordi durante la press conference veneziana che ha presentato, al mondo, il film. La Creatura, l’uomo anfibio de La forma dell’acqua, Hellboy, sono tutti mostri dal cuore d’oro e dall’animo naif che si contrappongono alle crudeltà del capitano Vidal, della letale Lady Lucille Sharpe, del Mussolini presente in Pinocchio, ma anche del colonnello Richard Strickland e del Bradley Cooper di Nightmare Alley; quest’ultimi incarnano la banalità del male che serpeggia nella quotidianità, dietro la facciata per bene e la bellezza.
In Frankenstein il doppio è un tema ricorrente, declinato nell’ottica di un riflesso che perseguita il passato fino a riflettersi nel presente, quest’ultimo palesemente infestato da fantasmi e traumi irrisolti. Victor proietta in Elizabeth il transfert della defunta (e amata) giovane madre: per tale ragione del Toro sceglie la magia del trucco e del parrucco per permettere a Mia Goth di interpretare entrambe in modo convincente, dando così vita all’origine dei conflitti che dilaniano l’animo tormentato del barone insieme al rifiuto della figura paterna. Incarnazione, in questo caso, di un patriarcato schiacciante, di una società che ripone aspettative entro le quali dover rientrare ad ogni costo per potersi omologare, pena la condanna all’ostracismo, a una stravaganza pericolosa che si muove nel confine limaccioso tra genio e follia, creatività e mania.
Il rosso è il colore del passato ma anche del presente di Victor, anzi: a tutti gli effetti diventa il “suo” colore, complici i guanti in pelle che indossa per lavorare sui cadaveri, pericolosa firma di un capolavoro deviato che sfida le regole della natura. Forse è più miltoniano Victor della propria Creatura, nell’ottica romantica di una ribellione oltraggiosa nei confronti dell’autorità secolare, di un Padre (superiore) che tutto sa e tutto vede… e tutto condanna. Il rosso come colore del sangue, della passione, dell’orrore che si infiltra, suadente, così come accadeva nel Dracula di Bram Stoker diretto nel 1992 da Francis Ford Coppola; e anche in questo caso, due uomini che per sfidare la natura si condannano con le proprie mani, suggellando un patto (di morte) con l’eterna infelicità.
E sempre a proposito di colori, fondamentali nella palette cromatica di del Toro e dei suoi direttori della fotografia sono i toni ambra, anche se nel caso specifico di Frankenstein nella prima parte (che ripercorre l’infanzia di Victor) risuona con vigore l’immaginario gustosamente anni ’60 di Sergej Iosifovi? Paradžanov e del suo capolavoro Il colore del melograno, senza dimenticare echi impliciti al cinema di genere italiano coevo e degli anni ’70, tra le fantasie orrorifiche in technicolor di Dario Argento (come non pensare al Suspiria con la fotografia di Luciano Tovoli?), Mario Bava (ma anche Pupi Avati) e il gotico immaginifico rubato alla letteratura. Il tutto mitigato dal verde paludoso e dai colori cupi che non possono mancare in un adattamento gothic che si rispetti, creando suggestioni cromatiche e la giusta atmosfera.
E se proprio vogliamo intercettare un ulteriore, presunto quanto tenero omaggio cinefilo che racchiude la dolcezza della visione di Guillermo del Toro nei confronti delle proprie mostruose creature… occhio allo spoiler, perché non si può non parlare dell’ultima scena che chiude l’intera mastodontica narrazione sullo schermo: la Creatura, finalmente liberata grazie al perdono concesso dal proprio creatore (e a quest’ultimo, morente), osserva l’alba sui ghiacci. L’incubo è finito, il sonno della ragione (insieme alla rabbia, la vendetta e il risentimento) viene spazzato via dalle prime luci del giorno e “il mostro” si commuove. Il bambino di legno (esattamente come Pinocchio) è diventato infine uomo, realizzando il proprio desiderio di umanità: per questo motivo può abbandonarsi ad un’emozione nuova e fragile, lasciando che un’unica lacrima gli solchi il viso. Una sensibilità intima e preziosa che ricorda il cinema di Charlie Chaplin, con la comunicazione non verbale che diventa potente megafono delle coscienze degli outsider rivolti verso l’alba di un nuovo mondo, o pronti a camminare incontro al tramonto malinconico dei tempi moderni.
Una creatura di carne e celluloide
E infine, siamo giunti al cuore pulsante della vicenda, organo caldo attraversato dall’elettricità e centro di tutto: del dramma insito nel romanzo della Shelley, ago della bilancia delle decisioni prese dal barone Frankenstein, nonché unico metro di giudizio che lo costringe a confrontarsi con il peso delle conseguenze delle proprie azioni. Nel libero arbitrio, nel confine sfumato tra bene e male, oscuro e limpido, notte e giorno, luce e buio, c’è la Creatura. Che nell’immaginario pop fagocitante (e bulimico) è stata infine ribattezzata Frankenstein, rubando il nome al proprio stesso creatore, per vendere meglio sul mercato costumi di Halloween e caramelle con stampato sopra il suo testone bullonato.
Nel passaggio magmatico dalla carta allo schermo d’argento, molti (registi, sceneggiatori, membri delle numerose crew) hanno trasgredito il materiale originale di partenza, restituendo una propria versione del prodotto finale dei folli esperimenti condotti dal grottesco barone assecondando, probabilmente, i perturbanti incubi del proprio inconscio. Del Toro rompe invece con la tradizione iconografica della settima arte tornando alla matrice del mito: nonostante le libertà che si prende nell’adattamento e lo spirito col quale maneggia il romanzo (esorcizzando evidenti frammenti di sé) torna proprio all’origine per concepire l’aspetto della Creatura. Che, nella sua creatività ipercinetica, diventa una statua d’alabastro rotta e traumatizzata, un capolavoro abbozzato e mancato proprio come doveva apparire agli occhi del suo creatore, prima innamorato di se stesso e della propria onnipotenza, infine terrorizzato dalle conseguenze tangibili della sua Hybris: ha giocato a fare Dio, si è sostituito all’Onnipotente invertendo il naturale ciclo vita-morte, proprio lui, uomo che ha deciso indipendentemente di dare la vita. E il risultato mostruoso è proprio lì davanti ai suoi occhi, per perseguitarlo finché respirerà.
Come l’intero sogno di adattare, per lo schermo, Frankenstein, anche la scelta dell’attore giusto per dar vita alla Creatura si è rivelata una vera sfida per Guillermo del Toro. La prima scelta, infatti, era ricaduta sull’inglese Andrew Garfield che ha poi abbandonato il progetto a causa di conflitti nella propria schedule. È solo a questo punto che, sulla strada del regista messicano, ha fatto irruzione Jacob Elordi, giovane e lanciata star australiana alla ricerca di un’uscita di sicurezza dalla comfort zone dei teen-movie hollywoodiani, da quelli più mainstream e commerciali che lo hanno consacrato presso il grande pubblico (urlante) – tipo i tre film di The Kissing Booth targati Netflix – fino al successo di critica di Euphoria, teen drama firmato da Sam Levinson che ha sdoganato (e confermato) molti talenti della nuova Hollywood.
Autori come lo stesso Levinson, Adrian Lyne, Paul Schrader (che lo ha diretto in Oh, Canada – I tradimenti), Emerald Fennell (con Saltburn) e Sofia Coppola (regista di Priscilla) hanno contribuito a traghettare Elordi fuori dal cono d’ombra della mera oggettificazione del corpo, ma è con del Toro che il processo raggiunge il proprio acme. Perché la scelta del regista è quella di distruggere la statua, frantumare l’immagine, scomporla in innumerevoli parti fisiche per poi riassemblare il tutto in un corpo inquietante, minaccioso, anzi letteralmente “perturbante”. Aggettivo, quest’ultimo, considerato nell’accezione freudiana del termine, quando degli aspetti della nostra realtà assumono di colpo, nella sfera onirica, dei contorni irriconoscibili tanto da turbarci, lasciandoci addosso una sensazione di disagio e inquietudine.
Il realismo estremo della Creatura, “umana troppo umana” tanto da diventare respingente agli occhi del proprio creatore, suscita un senso di profonda repulsione e orrore (pronti a crescere cicatrice dopo cicatrice) in tutti coloro che lo circondano, eccezion fatta per Elizabeth che riesce a “vederlo” davvero, ben oltre l’apparenza. E un meccanismo simile è anche alla base del fenomeno dell’uncanny valley[3], comune oggigiorno al mondo delle AI e delle nuove tecnologie, quando ad essere umana (troppo umana) è un’intelligenza artificiale che il nostro cervello riconosce come reale ma tende, comunque, a respingere, non accettandola come tale.
La Creatura di del Toro è, quindi, un patchwork di corpi di soldati morti durante la guerra di Crimea; in una scena (già cult) dall’eco fulciano, il barone volteggia, baldanzoso, tra ammassi di cadaveri e corpi smembrati nel suo laboratorio, mentre è al lavoro sulla realizzazione del proprio capolavoro sartoriale, l’uomo perfetto che lo aiuterà ad affermare: “ho sconfitto la morte, si può fare”. Citazione impropria del Frankenstein Junior di Mel Brooks? Sì, perché in fondo c’è spazio anche per questa versione parodistica della storia nel nuovo Frankenstein di del Toro, perché in realtà questo prodotto Netflix è figlio di tutti quei film che lo hanno preceduto: è la summa compendiaria, per immagini, di un intero universo narrativo di celluloide, più o meno accurato, più o meno horror, più o meno serio, drammatico o umoristico, più d’autore o incline alla parodia.
Il mostro come metafora di un mondo interiore complesso e stratificato, di paure inconsce e celate; il mostro come simbolo di un’intera produzione creativa, dedicata (come nel caso del regista messicano) proprio a raccontarli attraverso sfumature ogni volta diverse, declinandoli attraverso i generi, contaminando i racconti, lasciandosi suggestionare dal fumetto, dal mito, dall’archetipo della fiaba o dagli orrori della storia.
Il nuovo Frankenstein è il film manifesto dell’intera filmografia di un regista che ha, infine, raggiunto la propria Moby Dick, quella balena bianca e spettrale che lo ossessiona da sempre, trasformando l’irrealizzabile (e, a tratti, l’infilmabile) in un risultato concreto, un prodotto filmico di carne e celluloide (anche se, ça va sans dire, oggi siamo nell’era del digitale).
L’uso dell’AI, della CGI e del green screen è stata ridotta al minimo sul set: tutto è stato ricostruito con dovizia di particolari in modo meticoloso e attento, e perfino il make up della Creatura è figlio di infinite sedute di trucco. 10 ore di sessioni prostetiche interminabili per svestire Elordi della propria maschera, quella che Hollywood gli ha cucito addosso di “next heart-throb”: un ruolo nel quale la società lo ha sistemato ma che evidentemente, viste le recenti scelte cinematografiche, gli va molto stretto. «Sapevo che potevo riversare in questo progetto qualsiasi parte di me stesso, tutto il mio inconscio fino a questo momento, tutto quello che ho vissuto nella mia vita potevo metterlo nel mio personaggio. Per questo motivo la Creatura che vedete sullo schermo è la forma più pura di me stesso; è più me di quanto non lo sia io», ha dichiarato lo stesso Elordi alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il risultato finale, grazie all’amore di Guillermo del Toro (per i “mostri”) e la dedizione di Elordi alla causa (tanto da sparire nel personaggio) genera una figura tormentata e alla ricerca di sé, di un’identità frammentata e de-costruita pezzo dopo pezzo (in senso letterale), che cerca di rimettere insieme semplicemente vivendo, scoprendo se stesso nel riflesso del rapporto conflittuale con gli altri: l’uomo cieco che lo accoglie e gli apre le porte dello scibile grazie ai libri; Elizabeth, che intuisce subito una sublime scintilla comune negli occhi della Creatura, entrambi outsider ai margini della società; un mondo ostico e ferino nella crudeltà umana ma non nella natura (incontaminata e accogliente) che lo popola e perfino nel legame con il suo creatore/padre riluttante Victor. Una purezza naif intrappolata in un corpo monumentale, statua d’alabastro le cui ferite (tragiche) da Kintsugi non vengono riempite dall’oro ma dalla creatività di del Toro, che sceglie di aggiungere un dettaglio non presente nel romanzo della Shelley: la capacità di rigenerarsi, elemento che condanna il “mostro” al dramma struggente dell’eternità.
Ed è attraverso questo colpo di scena narrativo apparentemente innocuo (nell’economia del racconto) che invece questa versione di Frankenstein trova un’ulteriore chiave personale che passa per il vissuto del regista messicano, la sua fantasia, la sensibilità creativa che ha sempre riversato nella propria filmografia (contagiando anche il cast particolarmente ispirato): come il cinema post-moderno, anche la Creatura è un corpo di carne (e celluloide) alla ricerca della propria identità, condannata all’eternità e alla persistenza della memoria che la accomunano alla danza delle ombre sullo schermo d’argento.
Stessa vibrazione che, del resto, attraversava un’opera come il Dracula di Bram Stoker diretto da Francis Ford Coppola: in quel caso, il regista newyorkese aveva volontariamente inserito il cinematografo come dettaglio peculiare della sceneggiatura per consegnare, all’eternità del ricordo, la scomparsa del figlio Gian Carlo in un incidente in motoscafo. Attraversato dal dolore, Coppola aveva trovato l’unico modo per esorcizzarlo: raccontare un’opera letteraria gotica sospesa tra romanticismo (nero) e dramma dell’eternità, ma anche la condanna dei vampiri nel veder scorrere il tempo senza poter fare nulla, fermando l’attimo per trattenere chi amano.
Quell’incantesimo che invece solo il cinema sa replicare, illusione mobile, ombre cinesi pronte a replicarsi all’infinito tramandando un ricordo, raccontando storie anche quando a muoversi sullo schermo sono solo fantasmi. Un cinema, ad oggi, che ha superato la lezione classica inglobandola, rielaborandola negli esperimenti del post-modernismo che hanno però smarrito ormai la propria identità, alla ricerca di un senso che oscilla tra nostalgia del passato e paura nei confronti di un futuro perturbante di repliche e imitazioni digitali.
[1] “Frankenstein – The original 1818 text, third edition”, Mary Shelley. Edited by D.L Macdonald and Kathleen Scherf, Broadview editions, Canada, 2012.
[2] Ibidem
[3] L’uncanny valley (o “valle perturbante”) è un concetto introdotto nel 1970 dal professore giapponese di robotica Masahiro Mori, secondo cui la familiarità e il piacere verso un robot aumentano si interrompono bruscamente quando il realismo quasi perfetto suscita un senso di repulsione e inquietudine, a causa soprattutto delle piccole imperfezioni.

