Inutile ripercorrere tutte le tappe della seconda vita, artistica ma non solo, di Stefano Rampoldi detto Edda. Basti solo dire che dal 2009, anno in cui è ritornato improvvisamente sulle scene con un disco solista, “Semper Biot”, scritto a quattro mani con Walter Somà e prodotto da un nome importante come Taketo Gohara, l’ex Ritmo Tribale ha dapprima messo in chiaro che non era affatto morto (parlo di morte fisica e davvero, ai tempi non era una cosa scontata che fosse vivo), dopodiché ha ritrovato passo dopo passo la via da percorrere, acquisendo progressivamente credibilità ed accreditandosi come una realtà sempre più di primo piano nel mondo indipendente italiano.
“Fru Fru” è il suo quinto disco, si chiama così da una varietà di biscotto wafer (beh, che volete, lo sapevate che è sempre stato uno fuori dagli schemi, no?), ha un’orrenda ma allo stesso tempo magnetica copertina arancione ed è la cosa migliore che abbia combinato da quando ha deciso di tornare a cantare.
Se “Stavolta come mi ammazzerai”, pur se in maniera ancora leggermente confusa, era il lavoro in cui Stefano mostrava di aver deciso che cosa avrebbe voluto fare, “Graziosa utopia” apportava qualche piccola correzione di rotta, razionalizzando il tutto, sfoltendo un po’ di elementi e in generale declinando la proposta più all’insegna del Pop, quest’ultimo rappresenta la perfetta quadratura del cerchio, una sorta di fusione di ciò che meglio funzionava nei due precedenti lavori.
È cambiata leggermente la squadra, innanzitutto: Fabio Capalbo non è più della partita, al suo posto c’è l’ottimo Nick Lamberti mentre alle chitarre, oltre allo stesso Edda, c’è Francesco Capasso, che avevamo già visto in azione nel corso del precedente tour.
E poi, al basso e al banco di regia, responsabile di tutto il lavoro di produzione e di arrangiamento dei brani, c’è Luca Bossi. L’ex Dilaila è l’uomo in più dietro ai dischi di Edda ormai dal 2014, principale responsabile della crescita esponenziale maturata a partire da “Stavolta come mi ammazzerai”. Stefano Rampoldi è sempre stato un ottimo autore, ha sempre saputo come creare la melodia indovinata, il ritornello killer ma è nelle sapienti mani di Bossi che queste brillanti intuizioni vengono incanalate e razionalizzate, trasformandosi in canzoni di alto livello.
E qui, lasciatemelo dire chiaramente, il livello è altissimo. Tiro, impatto generale e linee vocali al limite della perfezione sono gli ingredienti principali di un disco che, nell’arco di appena mezz’ora di durata, spazza via tutto e tutti, con nove canzoni una più bella dell’altra, dove non c’è un solo secondo che sia di troppo.
La ricetta è simile a quella del disco precedente, con i Synth e la programmazione elettronica ad affiancare le chitarre in una sorta di versione plastica del rock irruento di casa Ritmo Tribale. A differenza di prima però, si punta maggiormente sulla velocità, il ritmo è costantemente teso, serrato e se si esclude “Edda”, dedicata alla madre da poco scomparsa (il suo nome d’arte lo ha preso proprio da lei), che ha un tono tutto sommato malinconico e un andamento più cadenzato, il resto dei brani è un assalto incalzante che non concede tregua.
“E se”, già uscito come singolo, è un bel biglietto da visita, con le sue chitarre funkeggianti e il lavoro di Synth che gli dà un piacevole tocco anni ’80. Ancora più riuscita la successiva “The Soldati”, cassa dritta e progressione armonica vincente, così come “Italia gay”, che vive di un bellissimo lavoro di chitarra ed esplode in un ritornello che sarà tutto da cantare e saltare.
In poche parole, abbiamo la medesima ricetta di brani come “Stellina” e “Signora” (ormai classici della sua produzione) ma ancora più snelliti e perfezionati. Con “Vanità”, invece, si assiste al tentativo riuscito di iscriversi nella grande tradizione della musica italiana, confezionando un brano che è denso di grandeur drammatica, con un ritornello che è in assoluto tra le cose migliori ascoltate negli ultimi anni, e non solo da lui.
Ci sono dei bei divertissement, come la conclusiva “Ovidio e Orazio”, forse quella dove le chitarre sono più robuste, oppure “Samsara” che mette a confronto due santi come Agostino e Francesco all’interno della prospettiva Hare Krishna a cui Stefano è da tempo fedele e che, come tutte le altre, vive di melodie splendide ed immediatamente cantabili.
A livello lirico è stato svolto un lavoro altrettanto interessante: Edda è il solito pazzo furioso che abbiamo imparato ad amare in questi ultimi anni, scrive testi che sono un flusso di coscienza a tratti divertente, a tratti spiazzante, utilizza il linguaggio scurrile con naturalezza e in questi pezzi nuovi infila pure una serie di immagini pornografiche senza farsi particolari problemi. È questo probabilmente il fattore che impedirà a questo disco di conquistare ambienti più generalisti e fare breccia nel circuito del mainstream: musicalmente ha potenzialità enormi e quasi ogni pezzo potrebbe diventare una hit ma i testi, per quanto a tratti facciano intravedere contenuti e riflessioni interessanti, sono decisamente troppo spinti perché possano funzionare in radio o anche solo diventare inni generazionali come accaduto a certe canzoni di Calcutta.
Ma dopotutto è meglio così: uno come lui è fuori dagli schemi ed è in qualche modo rassicurante che il suo grande talento non possa essere ingabbiato o addomesticato in alcun modo. Difficile che vada a Sanremo, per dire, così come è improbabile che qualche testata nazionale gli dedichi l’articolo principale della sezione “Cultura e spettacoli”. Edda appartiene esclusivamente al mondo che lo ha visto nascere e per quanto da anni possa vivere di musica, rimane e rimarrà sempre un segreto ben custodito.
Resta comunque che “Fru Fru” è quello che è: il punto più alto della sua carriera solista e forse il più bel disco italiano del 2019, assieme a quello dei Massimo Volume. Non so voi, ma io sono a posto così.