Ho ascoltato la prima volta “Figlia d' 'a tempesta” eseguita dal vivo alla trasmissione Propaganda Live, qualche settimana fa. Era uno di quei giorni in cui il frenetico rincorrersi di notizie sui crimini a scapito di donne generava confusione (a un ascoltatore distratto) su chi fosse la vittima, se si trattasse di una fase avanzata delle indagini, un delitto fresco di cronaca o di uno dei tanti ancora irrisolti, un processo in corso, un impeto di rivolta all’ennesimo fatto compiuto o una manifestazione di piazza di sensibilizzazione sul tema.
Una babele di informazioni che ha reso l’esibizione de La Niña e della sua nuovissima compagnia di canto popolare così suggestiva da rendere imprescindibile un aggiornamento del bollettino sui morti di questa guerra civile che si sta consumando all’interno dei nostri confini. Al momento in cui scrivo questa recensione, siamo a metà del mese di aprile, i femminicidi (solo quelli riusciti) in Italia sono già a quota 25.
E se il singolo tratto dal nuovo album Furèsta, titolo che non a caso rimanda all’indomabilità e alla selvaticità, diventasse un inno da cantare nelle piazze, nei posti di lavoro, dentro le mura di casa (che paradosso, eh?) sarebbe davvero un’occasione straordinaria. Tanto che, tra cinque o dieci o vent’anni, quando finalmente ripenseremo senza nostalgia alle lotte che hanno posto fine alle barbarie e alle distorsioni da cui scaturisce ogni episodio riconducibile alla questione di genere (sono ottimista di natura), ci verrà da canticchiare le parole di questa canzone, ricorderemo lo sguardo fiero di chi le ha scritte, ci muoveremo al ritmo di tammorra che le ha scandite.
C’è poi un’altra questione, questa volta leggera come certa musica, per fortuna, che riguarda la canzone napoletana, ma chi sono io per spiegarvela. Posso solo tirare in ballo i luoghi comuni, a partire dal fatto che Napoli non è solo mille colori e tutto il resto. Da sempre l’affascinante Parthenope costituisce il più prolifico laboratorio di ricerca musicale del nostro paese, per una serie di fattori che la rendono invidiata (e invisa) al resto d’Italia. Tanto per iniziare per un idioma tutto suo che si abbina perfettamente a qualunque genere, per non parlare di una scala minore e un accordo di sesta che hanno solo da quelle parti e che rendono inconfondibili le melodie nate laggiù, fino a tutti gli artisti che hanno fatto leva su una tradizione piacevolmente ingombrante per portare sempre più distante l'obiettivo della ricerca. Pensate a Liberato e al modo in cui ha conferito dignità alla musica neomelodica (fino a renderla addirittura trendy) oltre i confini campani.
Le radici a cui si ispira Carola Moccia, raffinata cantautrice e producer cresciuta a San Giorgio a Cremano, sono ancora più profonde, e si spingono ben oltre la crosta e il mantello stratificati sotto il Vesuvio, giù fino al passato remoto sepolto nel centro della terra. Un soundscape in cui riecheggiano armonizzazioni primitive di cui abbiamo smarrito traccia se non in qualche rigurgito del nostro inconscio, parti costruite su intervalli desueti ma arditi per voci rigorosamente femminili (un coro di pace, l’unico che indipendentemente dal contesto si riconosce sempre distintamente) e accompagnate dagli strumenti propri del barocco napoletano trattati in perfetta filologia, come la chitarra battente, il mandolino e i tamburi.
Il tutto secondo un gusto e una chiave modernista, così sorprendentemente urban che l’accezione di popolare (quella che riconduciamo a una cultura e a certi mestieri legati alla terra, alla strada, alla povertà e a quel tipo di matericità che le generazioni digitali schifano come non poco) fa il giro completo per collocarsi davanti a tutto, in un futuro dalle tinte sfuggenti. Un società arcaica che si impone prepotentemente in quanto l’unica sostenibile, in una prospettiva remota in cui la tradizione torna a essere femminile. Il matriarcato, finalmente, in tutte le sue derivazioni. Dinamiche in cui la donna si trova sempre al centro, fin dalle storie che hanno reso immortali i commediografi greci.
In Furèsta la coesistenza tra la tradizione napoletana e l’elettronica va oltre la maniera e la ricerca del plauso dei poser dell’ibrido e delle contaminazioni a tutti i costi. Lo stile che emerge è figlio dell’istinto allo stato brado, anema e core scavati da esperienze di rebirthing collettivo e arte in grado di liberare il substrato ancestrale dell’ascoltatore, sin troppo compresso dalle convenzioni e dai compromessi socio-culturali dei nostri tempi e delle nostre latitudini.
Un viaggio allegorico nelle reminiscenze di civiltà inconsapevolmente primitive - quella autoctona de La Niña in primis, riconoscibilissima nei sample delle antiche voci rurali in dialetto, passando per il fado e le collaborazioni con altre periferie del pianeta, dalla producer parigina - ma cittadina del mondo - Kukii al compositore egiziano Abdullah Miniawy. Un ritorno al folklore mediterraneo in cui il timbro femminile si erge protagonista all’origine, grazie all’irrequietezza, alla passione e all’indole sperimentale di un’artista che sa esprimere la propria ricerca con la più ruvida purezza.
Furèsta è lo spettacolo intimo del sentimento, e La Niña una splendida interprete della world music in senso proprio e all’epoca dell’intelligenza artificiale, un ritorno alla terra dove l’antico e il futuro deflagrano, sfiorandosi appena in un frenetico passo di tammurriata.