Il rapporto tra validità artistica di un progetto, potenzialità commerciale ed effettivi risultati conseguiti è ormai tutto tranne che lineare. In un momento storico come quello attuale, in cui la quantità di musica che viene pubblicata ogni venerdì è già tale che non basterebbe una vita per ascoltarla tutta, la domanda è d’obbligo: come fare a farsi notare, senza avere alle spalle un nome importante o le possibilità economiche per un battage pubblicitario su larga scala?
Vent’anni fa ci avevano promesso che My Space, YouTube, il file sharing, illegale o meno, avrebbero dato inedite possibilità a chiunque, senza per forza dover passare dai filtri delle case discografiche. Niente di più falso. Oggi la scena musicale italiana (ma è così ovunque, semplicemente parlo di quello che conosco meglio) è un’immensa foresta dove decine di migliaia di persone urlano come pazze per farsi sentire, provocando una cacofonia generale per cui nessuno riesce a capirci nulla.
Oggi avere talento non basta più, diventa anzi quasi inutile: quel che serve è farsi notare, sperare che qualcuno raccolga il tuo grido e che quel qualcuno sia abbastanza potente da spostare gli equilibri degli ascolti o, in alternativa, che provochi un passaparola in stile valanga che piano piano riesca a cambiare le cose.
I Pop Veronique rischiano di divenire l’ennesimo caso di gruppo dalle enormi potenzialità condannato a rimanere nell’anonimato, causa totale indisponibilità di ascoltatori.
E dire che il progetto è pure accattivante: totale anonimato dei suoi membri (si sa solo che fanno base a Bologna e che la cantante si presenta sotto lo pseudonimo di Velluto, anche se poi spulciando in giro qualcosa di più si trova), primi singoli accompagnati da video misteriosi ed evocativi (quello di "Stile migliore" in vaga modalità Wes Anderson), testi zeppi di citazioni e riferimenti, in pieno stile It Pop, ma con un’applicazione del Cut Up e del flusso di coscienza che denotano una maturità ed una consapevolezza decisamente superiori.
Gala, il disco d’esordio, che ha messo insieme i sei brani rilasciati a partire da gennaio 2024 e quattro inediti, rappresenta una prova di forza invidiabile: Pop da manuale, costantemente in bilico tra la dimensione mainstream e quella più “Indie”, ricercata ed intimista, perfetto equilibrio tra suoni digitali e analogici, con una produzione nitida e mai troppo invadente che lascia campo aperto a tastiere e chitarre acustiche, utilizzando l’elettronica in modo sempre perfettamente funzionale ai brani (c’è anche una drum machine, ma è impiegata in modo alquanto spontaneo e naturale). Per non parlare poi della scrittura di altissimo livello, che regala canzoni da manuale, una più bella dell’altra e tutte potenziali hit.
Ci sono due voci, una maschile e una femminile, anche se è quest’ultima ad essere maggiormente presente e a dettare la linea dei vari pezzi: timbro molto personale, poca estensione ma capacità interpretativa senza dubbio interessante, è quello che serve per valorizzare dei pezzi che, come già detto, escono fuori da una penna senza dubbio parecchio esperta in materia.
Ascoltate l’opener “Gerico”, col suo ritornello irresistibile, dove la malinconia agrodolce si sposa con frasi ultra catchy da cantare a squarciagola; oppure “Helsinki”, il brano che ha inaugurato il progetto, melodia sognante e atmosfera sospesa, con un altro hook che non fa prigionieri. “Domino” e “Splendore” giocano entrambe sul contrasto tra strofa e ritornello, lenta la prima, ballabile e in cassa dritta il secondo, un contrasto che non fa altro che accentuare la dinamicità dei brani.
Ci sono anche momenti più ricercati e non immediatamente fruibili, come “America mattina” e la conclusiva “Abitudini mancine”, una ballata annegata nei Synth e intrisa di una vocalità pigra e allo stesso tempo magnetica.
Per non parlare poi dello straniamento quasi metafisico che si prova ascoltando “Saturno contro”, canto d’amore di due anime poste in una dimensione inconoscibile, tra frammenti di quotidianità e squarci di astrattismo (“Le luci spente della città/chiudono gli occhi al mondo/mangiare sushi a sazietà/e tutto ciò che ora siamo noi/vestiti d’oro all’emporio/note fantasma in un canto/tu vieni da me/vieni da me/contro Saturno”), o l’amarezza scintillante di “Alfabeto Morse”, altro episodio in cui la piacevolezza della linea melodica scorre sopra un tappeto di tristezza rarefatta.
I Pop Veronique hanno tutte le carte in regola per poter fare numeri importanti, sebbene la dimensione prettamente popular sia loro preclusa a causa di un coefficiente di raffinatezza che non li rende per forza di cose adatti a tutti i palati. Il riferimento più probabile potrebbe essere, rimanendo in Italia, quello dei Baustelle, oppure di un Giorgio Poi privo del proverbiale french touch.
In ogni caso, una maniera di interpretare l’Indie Pop che suona fresca e personale, mai derivativa, sebbene se ne possa intuire con una certa chiarezza l’album di famiglia.
Vedremo se in futuro avranno voglia di farsi intervistare per raccontarci qualcosa su di loro. Nel frattempo c’è una cosa sola da raccomandare: ascoltate questo disco e diffondetelo il più possibile. Sarebbe un vero peccato se una gemma del genere rimanesse nascosta per sempre.