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REVIEWSLE RECENSIONI
07/07/2017
Mark Lanegan Band
Gargoyle
Gargoyle ci ripropone un Lanegan in buona forma seppure irrisoluto nelle scelte stilistiche.
di Giorgio Cocco

Quando ci si approccia ad un nuovo lavoro di Mark Lanegan le aspettative sono sempre altissime. Personaggio di primissimo piano del Rock d’autore degli ultimi decenni ha creato un vero e proprio culto intorno alla sua figura. Anticipatore del Grunge nella seconda metà degli ‘80 con gli Screaming Trees, gli album in solitaria negli anni 90 (tutti imperdibili), le collaborazioni con il gotha del Alt/Rock negli anni zero (membro aggiunto nei QOTSA per l’epocale Songs For The Deaf) infine, l’attività più recente, dallo splendido Bubblegum (2004) in poi, accolta con giudizi altalenanti da critica e pubblico. Le accuse più frequenti a proposito delle innumerevoli incursioni in lavori altrui, una voce inimitabile, quasi un brand da offrire volta per volta ad amici se non al miglior acquirente. D'altronde, chi non vorrebbe Mark Lanegan tra le guest di un proprio album? Un po’ come Tom Waits ebbe a dire su Chuck E. Weiss: uno capace di venderti il culo di un topo come anello di fidanzamento. Quindi le ultime prove solistiche, Blues Funeral (2012) e sopratutto Phantom Radio (2014), malriuscita giravolta stilistica, atta a modernizzare una discografia, un sound, una sensibilità consolidate, della quale non si avvertiva granché bisogno. Decisamente un brutto album: come se Nick Cave volesse trastullarsi col peggiore Synth/Pop dei ‘90, come se i tipi del Jack Daniel’s si buttassero sugli analcolici per incontrare il gusto degli astemi. Un passo falso che comunque gli abbiamo già ampiamente perdonato (facile, basta mettere su The Winding Sheet o I’ll Take Care Of You e tutto torna a posto) e che può starci nella sua lunga carriera in cui figurano più capolavori che incidenti di percorso.

Gargoyle, 14esimo full-lenght del rocker di Seattle (compresi gli album composti a quattro mani con Isobel Campbell e Duke Garwood), ci ripropone un Lanegan in buona forma, seppure irrisoluto nelle scelte. Sembra di assistere al lavoro di transizione di un artista pieno di dubbi indeciso se trarre ispirazione dal vecchio repertorio oppure insistere con i suoni sintetici delle produzioni più recenti. Le dieci canzoni, nate con l’apporto alla scrittura del chitarrista Rob Marshall degli Exit Calm e del polistrumentista Alain Johannes, consueto compagno d’avventure nella Mark Lanegan Band, compongono tuttavia una scaletta agile e di piacevole ascolto. Le sinuosità Electro/Dark di Death's Head Tattoo in apertura, il groove contemporaneo ed irresistibile del singolo Beehive il divertissement Cowpunk di Emperor (perfetta per le prossime, se mai ci saranno, Desert Sessions) reggono il confronto coi pezzi pregiati dei suoi album dal taglio meno intimistico mentre, in Sister, Goodbye To Beauty e First Day Of Winte, il nostro torna ad indossare i panni che più gli si addicono del crooner maledetto dalle timbriche scure e profonde. Collaborano in varie parti del disco Greg Dulli, Josh Homme, Shelley Brien e Duke Garwood. Come dire, vecchi amici e debiti di riconoscenza.