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REVIEWSLE RECENSIONI
16/05/2020
Public Practice
Gentle Grip
Sulla lunga distanza, i Public Practice non falliscono la prova, confermando nell'arco di dodici canzoni (tre delle quali sono in rotazione già da alcuni mesi) di aver imparato la lezione dei modelli e di saperla replicare alla loro maniera, senza che la sensazione di deja vu disturbi per questo l'esperienza di ascolto.

In attesa di scoprire come sarà la musica del futuro (di cui si parla spesso, senza peraltro riuscire ad arrivare al dunque) continuiamo a rifugiarci nella versione aggiornata di quella del passato. 

A questo giro tocca alla New York del CBGB, quella di Patti Smith, dei Television e dei Talking Heads, poi rivisitata da James Murphy coi suoi LCD Soundsystem. 

Ed è proprio a loro (e anche un po’ ai primi Blondie) che viene inevitabilmente da pensare dopo pochi secondi dall’inizio di “Moon”: beat martellante, giro vorticoso di Synth, spoken word. Mai riferimento poteva essere più esplicito. 

“Gentle Grip” è il loro disco di debutto ma la band non è esattamente sconosciuta: due dei quattro componenti provengono dai Wall, un Punk act con una certa fama nei circuiti dell'underground newyorchese e come Public Practice avevano già esordito con un Ep, “Distance is a Mirror”, nell'ottobre del 2018. Quattro pezzi appena ma idee chiarissime ed una padronanza di mezzi da lasciare decisamente impressionati. Non è un caso che, grazie al passaparola, il nome sia iniziato a girare e siano accadute cose interessanti come un piccolo tour in Inghilterra e una partecipazione al SXSW di Austin, seppur relegati in un piccolo spot. 

Sam York (voce), Vince McClelland (chitarra), Drew Citron (basso) e Scott Rosenthal (batteria) dal vivo sono bravi (per quel poco che si può giudicare dai pochi filmati disponibili in rete) e hanno dalla loro il carisma e l'avvenenza di una cantante come Sam, che tiene il palco come pochi e ha un’immagine personale e niente affatto stereotipata, nonostante un timbro che potrebbe anche ricordare quello di Debbie Harry. Aggiungiamo due video vivaci e ben diretti (quello di “My Head” da Sam stessa mentre “Compromised” è opera di Josie Keefe e Jonny Campolo), dove all'estetica da Disco anni ‘70 viene aggiunto un tocco di Glamour ottantiano ed il gioco è fatto. 

Sulla lunga distanza, i Public Practice non falliscono la prova, confermando nell'arco di dodici canzoni (tre delle quali sono in rotazione già da alcuni mesi) di aver imparato la lezione dei modelli e di saperla replicare alla loro maniera, senza che la sensazione di deja vu disturbi per questo l'esperienza di ascolto. 

Le chitarre Funk e i ritmi Afro di “Cities” ricordano molto da vicino i Talking Heads, così come “My Head”, che col suo ritmo irresistibile è probabilmente il brano migliore del lotto. Splendida anche “Each Other”, che ha un andamento più incalzante e nel ritornello sfocia quasi nel Punk, prima che nel finale entrino i fiati, per un crescendo davvero magistrale. 

L'elemento Dance è dato soprattutto dal lavoro della sezione ritmica, col basso di Citron che in “Disposable” e “Underneath” disegna linee sinuose e sensuali; con “See You When I Want To” ritorniamo in territori LCD mentre “Leave Me Alone” e “Understanding”, mixate insieme come in un perfetto dj set dei late seventies, col loro incedere ipnotico e leggero al tempo stesso riportano alla mente i B-52s, che venivano da Atlanta ma che in quanto a coordinate sonore rientrano perfettamente nei modelli. 

Un lavoro delizioso, che pur guardandosi indietro non ammicca mai in modo forzato o eccessivamente nostalgico e sa declinare certe sonorità nel contesto attuale (in questo la produzione ha giocato molto, così come anche la preparazione tecnica della stessa band). 

Cerchiamo pure di stabilire quale sarà la musica del futuro ma non neghiamo che certi periodi storici non smetteranno mai di costituire fonte primaria di ispirazione per le giovani generazioni di musicisti. Tra i più begli esordi del 2020 per me. 


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