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REVIEWSLE RECENSIONI
19/06/2025
Matt Berninger
Get Sunk
Fa un po’ strano sentire la voce baritonale di Matt Berninger sprovvista delle sofisticate trame armoniche e ritmiche del resto della sua band a reggere il gioco. Get Sunk è una versione light di un disco dei The National, ma non per questo meno raffinato e intrigante.

Quella di fare a un certo punto della carriera il cantante solista dovrebbe essere una cosa da sconsigliare fortemente, agli artisti. Nel manuale di istruzioni di qualunque gruppo musicale dovrebbe esserci una sezione a sé con tutte le controindicazioni di questo vezzo messe nero su bianco, un bugiardino con gli effetti collaterali. Certo, mollare il resto della band, magari sul più bello, è il male assoluto. Ma anche nei casi di pause programmate dall’attività principale, o estemporanee velleità di auto-affermazione senza il proprio team di riferimento nei tempi morti, la voce di un gruppo è destinata a restare per sempre la voce del suo gruppo.

Nel caso di Matt Berninger, poi, le aggravanti le conosciamo tutti: il suo timbro baritonale, il suo fascino da intellettuale per sad dad - proprio come la sua musica, il contrasto tra l’eleganza del suo look e l’improbabile scompostezza sul palcoscenico, i toni dark e malinconici delle sue liriche. 

E non è che a suonare con i The National non si stia con le mani in mano. Nel 2023 hanno pubblicato 23 canzoni nuove di zecca in ben due dischi e si sono imbarcati persino in un lungo tour mondiale. Avere il tempo e le energie per un album solista, immersi in un’esperienza totalizzante come quella, non è davvero da tutti.

 

Per Matt Berninger, come sappiamo, non è però la prima volta. Return to the Moon, l’album del progetto El Vy realizzato a quattro mani con Brent Knopf dei Ramona Falls, risale a dieci anni fa, mentre il vero esordio in perfetta solitudine, Serpentine Prison, è del 2020. Un disco figlio del lockdown, nell’accezione positiva e negativa di questa definizione. Uno spin-off della discografia dei The National, una variante del genere a cui ci hanno abituati, piacevolmente depotenziata grazie all’assenza degli ingombranti gemelli Dessner e della particolare ritmica dei fratelli Devendorf, il vero marchio di fabbrica del quintetto indie più influente di Brooklyn.

Una combo che spinge, con la sua drammaticità compositiva ed esecutiva, le canzoni a una potenza espressiva piacevolmente estenuante, aspetto la cui assenza in Get Sunk, proprio come nel suo esordio da solista, risalta sin dal primo ascolto. Una versione dei The National per principianti, senza pretese, strutturalmente più cantautorale e meno intensa (quindi più diretta) in cui il timbro di Matt Berninger va a ricoprire una dimensione differente e inusuale.

 

Un’impressione che colpisce sin dall’incipit, la chitarra che introduce “Inland Ocean”, una versione di “Terrible Love” (gli accordi sono quelli) dai toni meno high violet e più pastello, un mare che poi è un grande lago metaforico in cui immergersi sino a sparire (è il titolo dell’album a intimarlo agli ascoltatori) crogiolati dalla depressione e dalla nostalgia. Un mood che persiste nel brano successivo, “No Love”, dove almeno è la musica a lasciarci fluttuare nella speranza.

La successiva “Bonnet Of Pins”, insieme a “Little By Little”, richiama con decisione l’occupazione principale di Matt Berninger, come i riuscitissimi duetti con le voci femminili, veri alter ego nei toni acuti della profondità della sua voce. Nel delicato indie-folk di “Breaking into Acting” l’ospite d’onore è Meg Duffy degli Hand Habits, mentre la controvoce particolarmente cool di “Silver Jeep” (eccezionale quanto la parte affidata alla sezione fiati) è Ronboy, due brani che non sfigurerebbero in quel tripudio di collaborazioni e duetti che è I Am Easy To Find. La stessa “Junk”, canzone poco più che acustica, data in pasto ai The National, ne uscirebbe rivoltata come un calzino. C’è un altro varco con il passato che è “Nowhere Special” e il suo provocante recitato confidenziale, già sentito e apprezzato in “Smoke Detector” di Laugh Track.

 

Ma sarebbe riduttivo relegare Get Sunk a una serie cadetta in cui militano gli scarti dei The National, una tracklist di canzoni di riserva messe da parte perché non si sa mai. Matt Berninger da solo sa colmare ogni lacuna strutturale (e strumentale) con le sue parole e i suoi consigli, a partire dal messaggio finale, l’ultima traccia, non una title track ma il vero senso di tutto il disco in cui la sua non-filosofia riesce a trovare un antidoto per tutto, perché in certi casi, davvero, non si può fare altro: bere e tanto per non sentire il dolore, sprofondare se ti viene da piangere, dimenticare nei momenti di vergogna, bagnarsi se piove, e soprattutto stare a casa quando ci si sente soli, perché le persone ti fanno sentire ancora più solo. In attesa del prossimo disco dei The National, noi sad dad non chiediamo altro.