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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
24/02/2020
Zipper
Glam Orgasmico a Portland
Verso la metà degli anni ’70 anche Lester Bangs era convinto che l’unica salvezza del Rock sarebbe stato il nuovo “glam frocio” d’Inghilterra: Mott the Hoople, Sweet, i macho man populisti Slade.

Gruppi che in America non trovarono mai spazio considerato che l’immaginario yankee difficilmente comprendeva la tipologia del “dandy effemminato”. Per non parlare della caccia alle streghe che si scatenava (New York a parte) ogni qual volta sul palco c’era sentore gay nell’aria, basta vedere i trattamenti riservati a Velvet Underground e New York Dolls: provate voi ad andare a suonare agghindati da trans ubriaconi tra Tucson e Shreveport… E se in California trasgressioni vistose come quelle potevano passare per divertimento leggero, il neoclassico damerino Fred Cole (già veterano di guerre psichiche californiane con Weeds e Lollipo) e la sua scalcagnata band di rocker dal nome Zipper, dovettero pensarla diversamente quando decisero di trasferirsi a Portland, forse non proprio la strada per il successo, anche se l’Oregon vantava una indomita tradizione di garage bands.

Nel 1975 il gruppo incide l’unico LP, dal titolo omonimo, per l’ignota etichetta Whizeagle. Più un affare “home made” che una pubblicazione vera e propria: 500 copie rilegate a mano con scotch colorato. Un album di garage-glam ammiccante, a tratti perverso e fin troppo hard, in cui troneggia l’ubiquo e licenzioso falsetto del cantante che si atteggia ora a versione castrata di Plant ora a geisha ruffiana d’alto bordo, mischiandosi tra bubblegum rock che potrebbero stare tanto su Desolation Boulevard quanto su School’s Out. Alle sue spalle una band solida e rumorosa con una chitarra glaciale, disordinata ma tagliente, che azzecca anche un paio di riff niente male (“Born Yesterday”, “Let It Freeze”) qualche assolo disteso e ridondante specie in “Face of Stone”, pezzo che pare uno spin-off in salsa femminea di “Jury” dei mitici Trapeze di Mel Galley e Glenn Hughes.

Se non che la produzione superficiale o volutamente trasandata mortifica ogni ambizione radiofonica del complesso che con “Same Old Song”, quasi uscita dagli sdolcinati Rush di Lakeside Park, avrebbe anche potuto racimolare qualche consenso via FM. Peraltro, essendo il vinile ormai reliquia irreperibile, la ristampa su CD della Way Back è l’unica fonte abbordabile, pur con fluttuazioni di volume e fruscio di fondo allucinanti per una release ufficiale. Per fortuna questo aspetto lo-fi ben si adatta ai pezzi più scatenati e tirati, spesso deraglianti in parti strumentali concitate, fragorose, involontariamente cacofoniche, che, supportate dal mugugnare androgino e pornografico di Cole, sono la parte più succosa del lavoro, vedi per esempio l’hard boogie per isterismi schizoidi e gemiti orgasmici di “Rollin And Tumbin”. Ma anche l’hard di “Born Yesterday”, l’ambiguità di “Bullets” e il melodrammatico slow anni ’50 di “Worry Kills A Woman”, mentre l’acustica e dolciastra “Behind The Door”, pur apprezzabile nel suo essere così “poppy” e unplugged, sembra capitata in coda all’album per caso.

Poi va a finire che il pezzo migliore è l’inedito “Ballbustin’ Woman”, jam libera e funkeggiante in cui il basso ha i suoi momenti di gloria nei due rombanti e sfocati assoli. Magari gli Zipper volevano veramente fare sul serio col Rock; da buoni “simil-glam” si impegnarono per evitare che il degenerare del progressive si trascinasse dietro tutto il resto; eppure quel che oggi rimane all’ascolto è una sciarada di fantastiche parodie tanto dei Macho-Man dell’hard rock, quanto delle api regine del Gay-Rock Britannico.

Il tutto, meravigliosamente, senza volerlo. Affatto.


TAGS: EvilMonkey | hard rock | Zipper