“Il mio Dio è il rock and roll”
Manhattan. L’intersezione tra la 125ma Strada e Lexington Avenue è un luogo mitologico per gli appassionati dei Velvet Underground: qui il protagonista “più morto che vivo” di “I’m Waiting For The Man” attende con ansia febbrile lo spacciatore. E sempre qui, già sul nascere, franano le utopiche speranze e l’ingenuo entusiasmo degli anni Sessanta. La canzone, straordinario poemetto in cinque stanze sulla tossicodipendenza, fu pubblicata nel marzo del 1967 come seconda traccia di The Velvet Underground And Nico, ma è necessario sottolineare che era già stata abbozzata durante l’estate del ’65 nell’angusto appartamento al n° 56 di Ludlow Street (dove Lou Reed viveva assieme a John Cale), e dunque a ridosso dell’esplosione del flower-power e di tutte quelle che Reed stesso - nel brano “Sword Of Damocles” su Magic And Loss del 1992 - chiamerà “stronzate mistiche”. La fiumana di acido lisergico e marijuana che, partendo dalla California, si riversò su gran parte della gioventù americana nella seconda metà del decennio, iniettò nelle loro menti fallaci suggestioni cosmiche e illusorie fantasie di “pace e amore”. Un rincoglionimento generale, insomma, da cui pochi rimasero immuni.
Come Frank Zappa e le sue Mothers Of Invention - seppur con modalità diverse - Lou Reed e i Velvet Underground di quell’epoca incarnarono l’antitesi, scovandone da subito i fin troppo evidenti limiti e mettendo a nudo l’autoinganno dell’amore universale. “Qual è la parte più brutta del tuo corpo?” chiedeva sardonicamente Zappa nel titolo di uno dei pezzi chiave di We’re Only In It For The Money (1968).
“Tutti tuoi amici da quattro soldi”
Con encomiabile impegno, la critica anglosassone le sta tentando tutte, ultimamente, per rivalutare un esordio che più sciatto non si può. Assemblato con sette outtakes prese dal patrimonio all’epoca ancora occulto dei Velvet Underground (al quale Reed attingerà sporadicamente fino al 1978) e soltanto tre nuovi brani composti per l’occasione, l’omonimo debutto solista datato 1972 soffre soprattutto della mancanza di idee nuove, e a farlo non dico memorabile ma almeno decente non basta una pletora di nomi altisonanti (che cosa c’entrino Steve Howe e Rick Wakeman col rock’n’roll nessuno l’ha mai capito) messi lì ad eseguire impeccabilmente canzoni che non comprendono. Domina il piattume, principalmente frutto di una produzione nefanda che rende il suono grigio e insopportabilmente anonimo. E dire che le canzoni sarebbero quasi tutte mediamente più che buone, alcune persino eccellenti, come dimostrerà, una quindicina d’anni dopo, la pubblicazione degli archivi dei VU, le cui versioni di “I Can’t Stand It”, “Ocean”, “Ride Into The Sun”, e “Lisa Says” (non citando la allora appena abbozzata “Walk And Talk It” e le comunque di per sé prescindibili “I Love You” e “Love Makes You Fee”l) suonano… be’, suonano nel modo in cui avrebbero dovuto suonare.
Reed debutta, dunque, con uno dei tanti suicidi commerciali che ne costelleranno la carriera; e mentre Wakeman e Howe, incassato l’assegno per il minimo sindacale, se ne tornano in seno agli Yes a ordire le autoindulgenti trame onaniste che usciranno l’anno seguente col titolo di Tales From Topographic Oceans, a New York atterra un alieno di nome Ziggy che, con i suoi Spiders From Mars, cospargerà la città di polvere di stelle glam.
David Bowie fu per Lou Reed ciò che la Fata Madrina fu per Cenerentola. Non a caso il secondo album, uscito appena sei mesi dopo l’infelice début, si intitola Transformer ed è un tripudio di frizzi e lazzi, di moine camp e flop-flop di ciglia al mascara, di jeans stretti che ostentano erezioni, di umidi strusciamenti, di “fondotinta Factor N° 1, dell’eyeliner, delle bacche di rosa canina e del lucidalabbra e oh! è così divertente!” (“Make Up”).
A Reed non pare vero: in un baleno riscopre la propria androginia e la ostenta senza mezzi termini (un distico sempre di “Make Up” – “Now we’re comin’ out / out of our closets” – diventa istantaneamente uno slogan gay) alla faccia delle sedute “curative” di elettroshock cui fu costretto dai genitori a sottoporsi all’età di diciassette anni per “curare”, appunto, una presunta omosessualità. Senza contare che lui, tutto quello che - grazie a Bowie in primis, ma anche a Bolan e agli esordienti Roxy Music - è ora (siamo nel 1972, tenetelo a mente) considerato il non plus ultra dell’avanguardia rock, lo aveva già vissuto da protagonista tra il 1966 e il 1968 alla Factory. Sono, insomma, tutti figliocci di Warhol (e dei Velvet Underground), questi sfacciatissimi mutanti albionici che, in scia a Ziggy, vengono ora a rendere omaggio ai loro dèi. Lo splendore fittizio di Transformer sprizza miriadi di bollicine multicolorate che sollevano Lou nei cieli dello stardom: dagli spasmi elettrici di “Vicious” agli elegiaci languori di “Perfect Day”, dalla sfarzosità cosmica di “Satellite Of Love” alla sensualità jazzy di “Walk On The Wild Side” (conoscete altri che abbiano portato ai primi posti delle classifiche di mezzo mondo la fellatio, le anfetamine, il valium, la transessualità e le marchette, tutto in una sola canzone?), dalla pura gioia rock’n’roll di “I’m So Free” e “Hangin’ Round” al sornioso veleno di “Andy’s Chest” (altro ripescaggio del catalogo Velvet), l’album è un confetto letale impacchettato dal genio di Mick Ronson, che suona al suo meglio, arrangia con astuzia una manciata di brani già eccellenti e orchestra magistralmente uno stuolo di musicisti da pelle d’oca.
Entrambi ostaggi di un narcisismo patologico (e peraltro assai poco lucidi), Bowie e Reed, cominciano a beccarsi già durante le registrazioni. Si manderanno astiosamente e in via risolutiva a quel paese subito dopo, prendendo strade opposte: Bowie vestirà Ziggy a stelle e strisce con Aladdin Sane, Reed, invece, alla polvere di stelle continuerà a preferire altri tipi di polvere e darà vita a un’opera tra le più deprimenti e disturbanti degli anni Settanta. Di Berlin abbiamo parlato approfonditamente in un articolo ad hoc, tuttavia vale la pena, in questa sede, sottolineare come e quanto esso abbia contribuito a frenare brutalmente la corsa di Reed verso la consacrazione a popstar definitiva. Non fu capito, se non da pochissimi: troppo “forte”, troppo “reale”, troppo “vero” nel suo violare e violentare l’intimità dell’ascoltatore, mettendo a nudo le sue paure e i suoi desideri più reconditi.
“Oooh non è bello quando il tuo cuore è di ghiaccio?”
La RCA, che già aveva costretto l’artista a dimezzare un disco che originariamente doveva essere doppio, s’incazza di brutto (vendite irrisorie, verdoni bruciati) e, come da contratto, gli impone di produrre un album, se non commerciale in senso stretto, quantomeno “commerciabile”. Questo, almeno, narrano le cronache ufficiali. Scritto svogliatamente in quattro e quattr’otto Sally Can’t Dance fa la sua comparsa nei negozi americani nell’agosto del 1974.
Prima, però, a febbraio, viene dato alle stampe quello che a tutt’oggi è unanimemente considerato uno dei più grandi live di sempre: registrato il 21 dicembre del 1973 alla Howard Stein’s Academy of Music di New York, Rock N Roll Animal è il disco che trasformerà Lou Reed in una delle icone più potenti e riconoscibili degli anni Settanta. La spettacolare opulenza hard rock con la quale i due chitarristi Steve Hunter e Dick Wagner restaurano il repertorio reediano dei Sessanta (quattro dei cinque titoli in scaletta risalgono all’era Velvet) fa storcere il naso a molti, ma è innegabile che, dall’Intro di “Sweet Jane” alla pirotecnica chiusura di “Rock And Roll”, passando per una “Heroin” che si fa epica anche nella durata superando i tredici minuti, il restyling abbia regalato nuova linfa a canzoni già immortali, attualizzandole furbescamente ai tempi che corrono.
E mentre Rock N Roll Animal zampetta dignitosamente nelle classifiche, uno strafatto e annoiatissimo Lou Reed consegna a Dennis Katz (il suo manager) un nastro con gli abbozzi di otto canzoni: “Trova dei musicisti, falle arrangiare e suonare; quando sono pronte, vengo a incidere le voci.” Nasce così il summenzionato Sally Can’t Dance, ed è la prima e unica volta in cui “il fantasma del rock” (guardatevi sul tubo qualche live dell’epoca se volete farvi un idea del perché dell’appellativo) riesce a infilarsi con un LP nella Top Ten statunitense. Lo fa sfoggiando una capigliatura biondo-ossigenata su una copertina fumettistica che rimanda, anche nella scelta dei caratteri, all’immaginario da blaxploitation che proprio in quel periodo è al culmine della popolarità. Pur essendo il meno amato dallo stesso autore (non arriverà mai a rinnegarlo ma lo sconfesserà più d’una volta) e accolto assai tiepidamente dalla critica, Sally Can’t Dance, lungi dall’essere indimenticabile, ha nondimeno i suoi momenti d’eccellenza (il fasullo R&B della title-track, l’indolente “Baby Face”, l’acidissima, surreale “N.Y. Stars”) e almeno un brano (“Kill Your Sons”, livida di quel meraviglioso disprezzo che salva l’uomo dall’omologazione) memorabile. A dispetto di un tono volutamente e svogliatamente leggero, queste otto canzoni compongono un quadretto cupo, a tratti grottesco, di street life violenta e impietosa, simboleggiata da Sally, ragazza di strada che non può più ballare perché è stata stuprata, picchiata a morte e chiusa nel bagagliaio di una Ford. Reed, ancora una volta, punta il dito sull’ipocrita moralismo del genere umano che si esplicita nel perverso desiderio di essere semplici spettatori, o meglio, veri e propri voyeur del proibito, della trasgressione, del peccato e financo della morte.
“My week beats your year”
Bettye Kronstadt potrebbe confermare (e in parte l’ha fatto) tutte le seguenti affermazioni.
Lou Reed era una gran testa di cazzo.
Lou Reed era snob, cinico e violento
Lou Reed era uno che, se gli stavi sui coglioni, aveva la capacità di negare la tua esistenza fino a trasformarla in realtà (la negazione, non la tua esistenza).
Lou Reed era egocentrico, paranoico, ossessionato dal controllo.
Lou Reed era bisessuale, poi diventò gay, poi diventò un fondamentalista etero.
Lou Reed fu la sublime epitome della decadenza, prima di trasformarsi nel Gran Sacerdote del Moralismo.
Lou Reed concepì (?!) e pubblicò (?!?) Metal Machine Music (1975), cioè il più gran V-A-F-F-A-N-C-U-L-O all’industria discografica, ai fan, al mondo interno. È il suo “Io posso”, il suo delirio di onnipotenza, un panegirico dell’odio ineguagliabile. Bisognerebbe scrivere un libro intero solo su Metal Machine Music.
Uno dei più triti luoghi comuni del rock vuole che nessuno sia mai riuscito ad ascoltarlo per intero. È falso.
“Volevo giocare a football per l’allenatore”
…poi Lou incontra Rachel e (ri)scopre la “gloria dell’amore”. Rachel è bellissima, scultorea, sensuale, mezza messicana e mezza indiana, la classica tipa che fa girare le teste dei passanti quando cammina per strada. Rachel è un uomo. Un transessuale. Per Reed, che se la porta appresso ovunque, persino in tour, non fa differenza. Lei, riservatissima e gelosa della privacy, non ama farsi fotografare né rilasciare dichiarazioni. Però c’è, è sempre lì, al suo fianco; ispira e pervade totalmente il disco della “rinascita” reediana.
Coney Island Baby (uscito nel dicembre 1975) ha il merito di essere uscito dopo Metal Machine Music, vale a dire quando qualsiasi disco con anche un solo accenno di armonia, melodia e ritmo avrebbe fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti, e se oggi è considerato tra i suoi migliori lavori, lo si deve soprattutto a questo. Deliziosamente ammantate di morboso intimismo, le otto canzoni offrono all’ascoltatore languide carezze easy listening e rimandi a vezzi glam (“Charley’s Girl” è – armonicamente – una ripresa/riadattamento di “Walk On The Wild Side”) fin dalla bellissima copertina firmata – toh? – Mick Rock, suoni cristallini come sciabordii d’acque placide che a tratti s’increspano minacciose (la sublime “Kicks”) per poi nuovamente acquietarsi nel magnifico poemetto che dà il titolo all’album. Piace a tanti e tanti se ne innamorano e pare davvero che la figura di Reed stia nuovamente per decollare.
Poi, però, nell’ottobre del ’76, esce Rock And Roll Heart, che smorza gli entusiasmi. È l’album che inaugura il nuovo contratto con la Arista, ed è il primo - forse anche l’unico - disco prescindibile (stavo per scrivere “inutile”) del Nostro. Se Coney Island Baby era easy listening di classe, qui di classe non c’è nemmeno il retrogusto. Le leggerezza, quella sì, rimane. Anzi: c’è solo quella. Dodici stupid songs facili facili, all’insegna di sound e arrangiamenti poco più che mediocri, da ascoltare sotto la doccia o in gita con la famiglia nel weekend. Siamo dalle parti del più becero e lesso AOR al cui confronto i Toto sembrano avanguardia. Fortunatamente la pochezza del disco è controbilanciata da uno splendido tour, nel quale Reed, grazie a una band di musicisti stellari (a qualche data parteciperà come ospite anche Don Cherry), fa emergere la sua voglia di sperimentalismo e il suo amore per il free-jazz (esistono varie registrazioni semi-ufficiali di quei concerti, quindi non avete scuse).
“I do Lou Reed better than anybody”
Gennaio 1977: il primo numero della fanzine “PUNK” esce con Frankenstein in copertina. Ma non è Frankenstein, è Lou Reed, il “padrino del punk”. Fa qualche puntata anche al CBGB, tanto per ribadire che se non ci fossero stati lui e i Velvet Underground, da quelle parti si ascolterebbe ancora vecchiume country o muffoso folk-rock westcoastiano. Saluta e benedice la new wave americana, poi gira i tacchi sprezzante e se ne va, lasciando nella cassetta della posta del CBGB un pacchettino con otto canzoni che più reediane non si può. Street Hassle (1978) è il lato incazzato della musa sadomaso di un Reed che sputa veleno e spala merda su tutti, compreso se stesso, a partire dall’autodenigratoria “Gimmie Some Good Times” che rifà il verso a “Sweet Jane”. Il sound è grezzo, durissimo, diretto (fondamentalmente si tratta di materiale live con sovraincisioni), e pericolosamente affine a certi acidi sapori VU resuscitati dalla viola della title-track, affresco in tre movimenti (“I. Waltzing Matilda, II. Street Hassle, III. Slipaway”) sul lato oscuro di New York e della vita, che ospita uno straniante cameo non accreditato dell’allora “futuro del rock’n’roll” Bruce Springsteen.
Pur non essendo il capolavoro che tutti si aspettavano, Street Hassle è un’opera straordinariamente reediana e avrà un altrettanto reediano corollario, di lì a pochi mesi, in Live – Take No Prisoners, verbosissimo doppio live registrato al Bottom Line di New York, che coglie in poco meno di cento minuti tutta l’essenza dell’artista newyorkese, dal proverbiale genio all’ancor più proverbiale sregolatezza, toccando vette di sublime poesia e cadute di tono imbarazzanti, in un susseguirsi di contraddizioni e conflitti comicamente drammatici e drammaticamente comici: “I do Lou Reed better than anybody,” esclama dal palco del Bottom Line durante un’esecuzione di “Walk On The Wild Side” che sfiora i 17 minuti. E chi può dargli torto?
“Ed egli gridò ‘Guardate. Ecco le campane!’”
The Bells, l’album con cui Lou Reed congeda il decennio, barcolla tra pop, rock e sperimentalismo senza decidersi per nessuno dei tre. L’ormai onnipresente Michael Fonfara – co-autore anche della non riuscitissima “I Want To Boogie With You” e della parodia disco di “Disco Mystic” – arrangia come meglio può e tenta di trasformare in brani compiuti una serie di bozzetti poco ispirati. Il rock’n’roll animal è stanco, ha poche idee e lo si intuisce dal fatto che otto delle nove tracce sono composte assieme ad altri (tra i quali Nils Lofgren, futuro chitarrista della E Street Band). Ospite di rilievo, Don Cherry tenta di redimere un sound spesso confusionario e a tratti anche sciatto. Eppure, anche oggi, il disco si lascia ascoltare e ha nella title-track quello che forse è il vertice della poetica reediana. “The Bells” è infatti la “canzone” reediana per antonomasia, nove minuti e quindici secondi che sintetizzano passato, presente e futuro…
And the actresses relate
To the actor who comes home late
After the plays have gone down
And the crowds have scattered around
Through the city lights and the streets
No ticket could be beat
For the beautiful show of shows
Ah, Broadway only knows
The Great White Milky Way
It had something to say
When he fell down on his knees
After soaring through the air
With nothing to hold him there
It was really not so cute
To play without a parachute
As he stood upon the ledge
Looking out
He thought he saw a brook
And he hollered, Look, there are the bells
And he sang out, Here come the bells