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REVIEWSLE RECENSIONI
Gli anni venti
Estra
2024  (Moonmusic, Freecom)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK ALTERNATIVE ITALIANA
9/10
all REVIEWS
10/06/2024
Estra
Gli anni venti
Ci sono dischi che suonano come sveglie della ragione. Sono merce sempre più rara e sempre più necessaria: ci raccontano chi siamo prendendoci a cazzotti. Il ritorno degli Estra, che a più di vent’anni dall’ultima volta, ci raccontano i nostri anni venti, disseminati di miserie umane ed ego ipertrofico, coincide con quanto detto sopra. Una sacrosanta tortorata di rock distorto come antidoto ad un torpore assassino.

Pareva questione di un attimo

afferrare il bandolo

invece

di colpo

fu troppo tardi

come animali

non restava che

attendere il gas.

Ma quanto lunga l’attesa

quasi quanto il bandolo

e non sentivi

che il sibilo era già

cominciato da tempo.

 

Questa è una delle ultime poesie di Goffredo Parise. Risale a quasi quarant’anni fa, lo scrittore vicentino, ormai privo di forze, la dettò alla sua ultima compagna circa cinque mesi prima di morire.

Racconta nitidamente una condizione di costante irrisolutezza che, evidentemente, come si può intuire, non è malattia d’ora. Ed, oltre a quello, è pervasa da una precarietà generale, come se tutti sapessero dell’arrivo di un qualcosa di irreparabile, ma nessuno si impegnasse effettivamente a fermarlo.

È una sintomatologia affilatissima di questi tempi svuotati, di nuvolaglie dense e grigiastre (o forse, più che altro, nerissime) che ci lavorano costantemente ai fianchi. Ci si prende per sfinimento, forse, peggio ancora, per abitudine, un po’ come succede nella poesia. E, sempre come nella poesia, il nemico non gioca a viso scoperto, è invisibile ed asfissiante. Stordisce pian piano, esattamente come un gas.

D’altro canto, sempre di avvelenamento si tratta, poi che ad essere avvelenata sia l’aria o sia il pozzo, poco cambia: la sorte finale è la medesima, ecco. Si finisce per non riconoscersi più, per diventare indifferenti gli uni agli altri, in un carnevale di fantasmi cupo di isolamento.

 

Sono Gli anni venti, ma non lo sappiamo ancora. Ci sembra che “anni venti” possano essere stati solo quegli altri (e anche questa a) lettura della storia non può che essere figlia scientificamente voluta di tempi miseri, e invece fra qualche anno potremo giocare ad un difficile “trova le differenze”.

Gli anni venti è anche il titolo del (benedetto) ritorno degli Estra, mitologica band trevigiana che ad inizio anni Novanta contribuì a rendere irripetibilmente gloriosa la scena alternativa di casa nostra.

Fra le altre cose, nell’ennesimo corsi e ricorsi storici di queste righe, Goffredo Parise morì esattamente a Treviso: tutto riesce sempre ad essere terribilmente ciclico.

Mancavano da più di vent’anni, gli Estra. Nel frattempo, ammiccamenti e prove di reunion. Poi, finalmente, lo scorso anno, l’annuncio: campagna di crowdfunding per produrre un nuovo album, e cifra raggiunta in un battito di ciglia.

Tornati in studio, Giulio “Estremo” Casale, Abe Salvadori, Edy Bassan e Nicola “Accio” Ghedin si sono affidati alla produzione di un altro calibro grosso dell’alt-rock di casa nostra, il fenomenale Giovanni Ferrario, ed al contributo di una specie di deus ex-machina del progetto come Marco Olivotto.

 

Tutto scorre dritto e senza fronzoli, non c’è neanche il classico press-kit, solo dei sottotitoli a corredo delle varie canzoni, a fare da minimo collocamento spazio-temporale, in una sorta di mini sceneggiatura ipotetica Ne viene fuori un risultato ruvidissimo, serrato e malmostoso, che più che un disco è una fotografia.

Lavoro aperto dal cameo di quel fuoriclasse di Marco Paolini in una “La signora Jones” (evidentemente la moglie del Signor Jones di Nordest Cowboys) tanto angosciante nel contenuto del recitato quanto nella parte musicale (che altro non è che la Marcia Funebre dalla Sinfonia n°1 di Mahler, suonata dall’Orchestra Regionale Filarmonica Veneta, diretta dal M° Walter Bertolo), che finisce per dissolversi in una gragnuola di distorsioni.

Le distorsioni accennate di cui sopra servono, in realtà, a spianare la strada alla tempestosa “Fluida lol (I ragazzi)”, che scorre lungo una batteria secca ed un basso tuonante, con schitarrate al fulmicotone e cascate sintetiche ad accogliere i versi (furibondi come la sua voce) di Casale: “È come non avere né speranze né chances/ Politici e notizie tutto a finire in spam/ Mattina e percepire le ossa e l’anima stanche/ Dopo un altro inverno tutto di notti bianche/ Ha un corpo senza forma né colore”.

 

A seguire arriva la title track (con sottotitolo “Lo scenario”), scarnificata, anche in questo caso, dall’incedere minaccioso della sezione ritmica, fra bassi cingolati e pattern ritmici giocati sui tom, con le chitarre sempre a ruggire in compagnia di synth allucinati e allucinanti. A pitturare definitivamente il tutto di tetre affinità con l’oggi, ci pensa il testo: “Dio, Patria e lei distorti dal megafono/ La povertà girava sul grammofono/ La verità celata imperscrutabile/ La mia Natura violata in modo ignobile/ Erano gli anni venti/ La regressività/ Le guerre tra gli ulivi/ La pace con i gas/ Erano gli anni venti/ Qualcuno ci lucrava/ Belin se ne fregava/ Coi Media domani Per tutti sarò una star!”.

Anche “Che n’è degli umani (Le fatiche)” scorre sui binari infuocati tracciati finora, incrociando trame decisamente cupe sulle strofe, ed arpeggi elettrici a rischiarare (per quanto possibile) il ritornello. Letterariamente, ci si sposta su toni amari e malinconici, con un “Ed eccoci qui aggrappati ad un filo/ Ma se guardi bene il filo è spinato/ Delusi e accecati dal secolo al Nero/ Ognuno egofisso e pure frustrato” quantomai incisivo.

 

“Nessuno è come noi (L’esilio)” arriva, con i suoi timbri appena smorzati, come una quiete momentanea, scandita dall’arpeggiare elettrico della chitarra, a sua volta accoccolato sull’ennesima linea ritmica muscolare, smossa da un basso vorticoso. L’impressione di una lama di luce a squarciare le nuvole si riverbera anche nel testo, con lo splendido “Quando poi sorridi e tutto è dignità, la tua dignità/ Quando sai volare nel confinamento, dentro/ Ad ogni sbarramento/ Quando non ti basta una fotografia, mia/ Allora puoi ben dirmi qui nessuno è come noi/ E chi verrà a salvarci dov’è/ Puoi continuare a dirmi qui nessuno è come noi/ E chi verrà a cambiarci non c’è”.

“Ti ascolto (Infinito futuro presente)”, giro di boa del disco, ci catapulta in atmosfere notturne e desertiche, con una batteria sabbiosa ad accogliere i fraseggi riverberati della chitarra e la voce megafonata di un Casale nuovamente acceso della rabbia di chi comprende la deriva: “Io mi arrendo e non spengo, ti ascolto, è passione/ Rimando di nuovo la mia guarigione/ Ché siamo e restiamo le nostre illusioni/ La lista infinita, mancate rivoluzioni/ Ma sei bello e incazzato, denunci il Reato/ Non hai avuto scelta: sei nato al Mercato”.

 

A rimettere nuovamente tutto su piste tumultuose è “Lascio Roma (La fuga tentata)”, trascinata dalla maratona elettrica corsa dalle chitarre, dalle voragini di un basso di fuoco e da una batteria che arriva dritta sui denti, esattamente come il testo, con quel “Palazzacci delle inquisizioni/ Rotocalchi diretti da Buoi/ Quei sobborghi squadristi e minchioni/ Lascio le Albe Dorate e i rasoi” che non lascia il minimo scampo.

“Nel 2026 (Sul realismo)” affonda in paludi di synth distopici, su cui si arrampicano i fraseggi distorti della chitarra ed una sezione ritmica che esplode nel ritornello, in un pezzo che turbina ancora su trame resistenti: “Noi si vuole andare avanti,/ Tanti o pochi, luceoscurità/ Qui non si vive che d’istanti,/ Bianchi, stanchi, sprassolati/ Se il nostro tempo ha una mania/ È Tirannia, è troppa roba/ La cultura regressiva stira e ammira/ Il vuoto che c’è qua/ Il vuoto che c’è qua”.

Non è da meno una “Il peggiore (Introspezione)” dalle dinamiche languide e melmose, fra sintetizzatori viscosi, delay umidi e tensioni elettriche che boccheggiano a pelo d’acqua, in un pezzo che mette in mostra ogni profondità della voce di Giulio, a cantare un testo che parte disilluso (“Il futuro è già scritto, il futuro è rubato/ Il futuro era un furto bene architettato/ Il domani è per chi si è già uniformato/ Si è già uniformato/ E il dolore peggiore è non sentire dolore/ Il dolore peggiore è non sentire più dolore”) e finisce straniante ed alieanto, “Non lo sai che di me non ti devi fidare/ Non ho mai avuto un posto/ Non so dove tornare/ Sono l’ultimo uomo, sono il padre e la figlia/ La promessa è tradita, non c’è più Meraviglia,/ Non c’è più Meraviglia”.

 

“Monumenti immaginari (Tirando ideali ai muri)”, uno dei passaggi più belli del lavoro, lievita insieme al crescendo ritmico, con un basso che affiora dalle profondità degli abissi, e le tastiere a far esplodere un muro di chitarre, in un vorticare metrico pazzesco. Letterariamente, poi, è un pezzo dalla bellezza disarmante, una specie di atto di fede come talismano in tempi incerti: “Non è vero che credo a niente,/ Non starò mai cogli indifferenti/ Presempio credo ai tuoi richiami/ Strani insani immani appari e/ Credo proprio che tornerò/ Credo nobili le tue mani/ Che mentre nuoto a vuoto beh si allungano sai/ Mi pare un bel via vai”, concluso dall’altrettanto stupendo “Dobbiamo reclamare un tempo santo dell’ingenuità/ E insieme profanare il tempio vacuo dell’Iper-Realtà/ Spargendo monumenti immaginari alla fragilità/ Aprendo dentro e fuori a tutta un’altra idea di libertà”.

A chiudere il disco ci pensa una “Notte poi (Il razionamento)” raccontata dal pestare incessante della batteria, su cui mulinellano le chitarre elettriche, colorate dalle visioni assolate dei synth, e su cui si innesta lo spoken di quell’altro fuoriclasse totale di Pierpaolo Capovilla. A corredo, un testo che diventa breviario di Resistenza, da “La mia patria ha un chiodo in gola/ Connessione e rete umana in down/ Tu che farai per resistere, tu dove andrai/ Gli ultimi storti siamo noi/ Gli ultimi storti siamo noi” a “È una lunga notte nera/ Ogni rete partigiana in down/ Tu che farai per resistere, tu dove andrai/ Gli ultimi umani siamo noi/ Gli ultimi umani siamo noi”.

 

In conclusione, non c’è molto da aggiungere ad un lavoro del genere, solo che ce n’era un gran bisogno, quantomeno come risposta alla moda del disimpegno che ci circonda.

E allora salutiamo la poesia con la poesia.

Restano quei versi

cordoglio tardivo

per una patria che non ha più volto.

(Tahar Ben Jelloun)