Stamattina è arrivata la conferma che, a meno di sorprese dell’ultima ora, il tour estivo degli LCD Soundsystem non toccherà l’italia. Un paio di giorni prima, il Firenze Rocks, una manifestazione che si spaccia per festival come una mucca potrebbe spacciarsi per un dromedario (paragone orrendo, scusate) annuncia una line up composta da nuove e fresche promesse della musica come Guns N Roses, Foo Fighters, Iron Maiden, Judas Priest (che saranno ridotti a fare da spalla agli Avenged Sevenfold, guarda un po' dove siamo finiti), Ozzy Osbourne.
Siccome anche artisti come D’Angelo e Kendrick Lamar, esponenti di generi e tendenze musicali che ultimamente ci vantiamo di perseguire e di capire, hanno deciso di disertare il nostro paese in occasione dei loro prossimi concerti, ne deduco che qualcosa non va.
Che la vita dell’appassionato di musica non sia proprio semplicissima è un dato di fatto: ultimamente, per dire, quando mi fanno la fatidica e alquanto inutile domanda: “Che cosa ascolti?” io normalmente rispondo “Niente” o “Un po’ di tutto” a seconda di come mi gira. Sono stufo di conversazioni che si svolgono più o meno in questa maniera:
“Cosa fai stasera?”
“Vado a sentire un concerto.”
“Che bello! Di chi?”
(Nome a caso)
“E chi sono?”
(Spiegazione più o meno vaga per non addetti ai lavori)
“Ma sono famosi?”
“Nel loro genere, parecchio.”
“Impossibile! Se non li ho mai sentiti, non possono essere famosi!”
Vabbè ci siamo capiti, quella roba lì. Quella supponenza un po' atavica di quelli che se un gruppo non lo passano a Radio Deejay e non viene ospite a X Factor, non esiste neppure.
In Italia il mainstream è il mainstream ma la nicchia non esiste. O se esiste, è ridotta alla stregua di una riserva indiana. Per carità, non è che da noi i gruppi non passino, eh! Negli anni ho visto bene o male tutti e sono proprio pochi i nomi per cui sono dovuto andare in trasferta. Eppure, la scena è sempre la solita: locale pieno a metà, se va bene a tre quarti, solo una piccola fetta di pubblico che dà l’impressione di conoscere bene chi si sta esibendo e partecipa attivamente allo show; una buona parte è attenta, apprezza ma si capisce che è lì solo per curiosità; i restanti si fanno beatamente i cazzi loro, spesso rompono i coglioni chiacchierando del più e del meno.
In poche parole, quando vai a vedere un nome medio piccolo in Italia, non hai mai l’impressione di partecipare a qualcosa di apprezzato, conosciuto, condiviso. È sempre una cosa da circolo esoterico, per non parlare poi dei locali, spesso inadatti ad ospitare gente di una certa caratura.
All’estero, in teoria, è diverso. A settembre ho visto gli LCD Soundsystem a Copenhagen (eh sì, per loro sono dovuto emigrare): un club da nemmeno duemila posti pieno zeppo (era la terza di tre date in città), età media del pubblico circa 25 anni, due ore ininterrotte di pogo, salti e balli, dove tutti, dico tutti, sembravano conoscere a menadito le parole di ogni canzone.
E poi c'è il discorso dell’affluenza: conosco gente che vive a Londra e che per prendere i biglietti di ogni singolo concerto deve sbrigarsi in fretta perché altrimenti finiscono. Che si tratti di James Blake o degli Ulver, la sostanza non cambia, insomma.
Bene, è evidente che da noi c'è poca curiosità, poca educazione, poca abitudine all’ascolto. Il continuo avvicendarsi dei soliti grossi nomi si spiega così: sono i gruppi della giovinezza per molte persone, sono abbastanza famosi e conosciuti da giustificare la spesa non proprio insignificante tra viaggio e biglietto e per suscitare in qualche modo l’invidia degli amici davanti all’immancabile selfie con sfondo palco.
Prendiamo Ozzy Osbourne, giusto per fare un esempio: in pochissimi conosceranno “Diary of a Madman”, “No Rest for the Wicked”, “No More Tears” e quei dischi lì. Un 10%, non di più reagirà, in qualche modo al nome di Randy Rhoads. Ma vuoi mettere il pipistrello, il “principe delle tenebre”, The Osbournes e altre inutili cagate?
Ci siamo capiti. Però, come giustamente mi ha fatto notare un amico nonché collega di redazione, bisogna anche capire da dove viene fuori questa diseducazione, questa mancanza di curiosità che ci porta inevitabilmente a seguire la massa e a tarare i nostri gusti su quelli di Virgin Radio (pensavate che MTV avesse rovinato la musica? No ragazzi, è Virgin Radio il male assoluto, date retta a me!)?
Ecco, a una domanda così è molto difficile rispondere. Diciamo però che una qualche spiegazione la si può abbozzare. Personalmente, credo che c’entri molto il rapporto tra ciò che va di moda e ciò che si è guadagnato una quota stabile di pubblico devoto e appassionato.
Le mode sono cicliche e ci sono sempre state. E in Italia, negli anni ’90, il rock andava molto di moda. Anche l’Heavy Metal, se per questo. Alle superiori io bazzicavo quel mondo lì e ricordo perfettamente che ai concerti ci si andava in dieci, venti, trenta persone. Si partiva in treno da Varese, a volte la mattina, saltando la scuola per stare in prima fila, ed ero spesso in compagnia di gente che adesso secondo me manco si ricorda che faceva queste cose.
Già solo cinque o sei anni dopo, quando frequentavo l’università, tutta quella gente non c'era più e io, che non ho mai utilizzato il criterio degli ascolti musicali per scegliermi le amicizie, mi ritrovavo spesso ad andare da solo a vedere certi gruppi.
Ecco, eravamo in tanti ma era una moda, nulla di più. E quando la moda è finita non si è formata la nicchia stabile come invece, immagino, è accaduto in altri paesi. È semplicemente finito tutto e quelli che un tempo andavano ai concerti, magari sono gli stessi che scrivono sui Social che “La musica di oggi fa schifo! Non ci sono più gli artisti di una volta!” e poi, coerentemente, si recheranno in massa a Firenze per ammirare i gruppi di quando erano giovani e quindi, più che per godersi un concerto, saranno lì per ripetersi per l’ennesima volta di quanto “era tutto più bello e facile in quei tempi là…”.
C'entra anche il mercato, ovviamente. I cd non si vendono più, si ascoltano le nuove uscite da Spotify o YouTube e lo sappiamo, in queste piattaforme dominano la playlist e la riproduzione casuale; solo un vecchio come me può ancora godere nel trovarci gli album e nel riprodurli dall’inizio alla fine.
E ovviamente, se il tuo target di riferimento sono le playlist e gli ascolti suggeriti dal sistema, non ti affezionerai mai a nessuno al punto da volerlo vedere dal vivo.
Ma anche all’estero i dischi non si vendono, direte voi. Certo, però mi piacerebbe vedere le cifre. Perché io quest’estate ero a Brighton, che non è certo una metropoli. E solo nel centro di Brighton di negozi di dischi ne ho visti cinque e ad occhio e croce mi sembrava godessero di ottima salute. Brighton è grossa come Varese, più o meno. A Varese ai miei tempi ce n’erano tre. Oggi ne hanno aperti due, mi dicono, ma ho l’impressione che sia più roba da feticisti che altro.
Allora, di nuovo, torna la domanda: da che cosa dipende? Per quale motivo rimaniamo così costantemente indietro rispetto agli altri? Perché oggi parlare di musica in Italia con passione e cognizione di causa suscita quasi lo stesso interesse delle guerre messeniche (e secondo me interessano di più le guerre messeniche, ad occhio e croce)? Anzi, diciamocela tutta: perché oggi il rapporto tra gli appassionati di musica e quelli che scrivono di musica sembra così maledettamente coincidente (per farla breve: ci leggiamo e ci commentiamo tutti tra di noi)?
Potrebbe anche essere il modo devastante in cui viene insegnata alle scuole medie (il flauto dolce è obiettivamente una roba illegale) ma qui si va in un campo che non è il mio, meglio lasciar perdere.
Torniamo all’inizio: gli LCD Soundsystem quest'estate saranno in tour e per vederli dovremo prenotare un bel volo Low Cost. In tutta Europa si fanno i Festival e noi ci illuderemo ancora una volta di essere all’altezza perché a Monza, a Firenze, a Lucca si riempie un prato di gente e si fa suonare qualche vecchia cariatide.
Non so voi, ma a me piacerebbe molto che tutto questo finisse, prima o poi…