Quando il brit pop sta iniziando la sua parabola discendente, in Inghilterra si va affermando un nuovo genere, che, dalla città di Bristol, si appresta a conquistare gli ascolti di mezzo mondo. Si chiama trip hop, un ibrido in cui confluiscono hip hop, soul, psichedelia, jazz, funk, dub ed elettronica.
Portabandiera del suono, insieme a Morcheeba e Massive Attack, sono i Portishead, che prendono il nome da una piccola cittadina del Somerset, in cui è cresciuto Geoff Barrow, mente pensante della band, polistrumentista e produttore. Arruolata la magnetica Beth Gibbons, cantante dal timbro vocale spettrale, i Portishead escono nel 1994 con un esordio folgorante, intitolato Dummy, a tutt’oggi considerato dalla critica come uno degli album più influenti di quel decennio.
Dieci tracce (undici nell’edizione americana) in cui suoni clamorosamente vintage (sintetizzatori moog e rhodes, organo hammond, giri di chitarra tratti da colonne sonore cinematografiche degli anni sessanta) vengono rielaborati in chiave moderna attraverso l’uso di campionatori e scratch. Il risultato è una scaletta dagli umori cupi e malinconici, che si srotolano su ritmiche rallentate quasi al confine della narcolessia.
In una scaletta, che è riduttivo definire perfetta, svetta il brano conclusivo, Glory Box, canzone che la mano del tempo ha collocato sul piedistallo della leggenda. Costruita sullo scheletro di Ike's Rap II di Isaac Hayes dall'album Black Moses, Glory Box viene lanciata come singolo, su insistenza della casa discografica, nonostante il parere contrario dei musicisti, che la ritenevano troppo commerciale e non adatta a rappresentare la vera essenza della musica dei Portishead. Non è un caso, quindi, il brano che compaia in coda al disco, come a voler rimarcare la distanza fra la band e una canzone che, però, innegabilmente, diede loro il successo commerciale e la fama.
Una linea di basso che scende verso un cupo sprofondo, la batteria che scandisce il ritmo al rallentatore, volute di archi ad accentuare l’effetto ipnagogico e un ritornello, il cui grido di dolore della Gibbons si inerpica sulle scariche elettriche di una chitarra sporca e distorta sono l’ossatura di Glory Box. Difficile immaginare qualcosa di più malinconico di questa dolorosa confessione a cuore aperto di una donna ferita nei sentimenti, delusa da un rapporto ormai avariato, pronta a rinunciare all’amore per salvaguardare il proprio orgoglio e la propria identità.
L’idea di partenza fu quella di utilizzare l’immagine della Glory Box (uno scrigno prezioso, in cui le donne, nei tempi passati, usavano riporre il proprio corredo per la dote in vista del matrimonio), come metafora dell’anima femminile, per denunciare una relazione logora, che non riesce più a trasmettere felicità e passione, ma solo una esiziale frustrazione: “Sono così stanca di giocare, di giocare con questo arco e queste frecce…lascia che siano le altre ragazze a giocare”. Perché l’uomo che Beth ha davanti agli occhi ha ormai perso la propria integrità, e soprattutto, non possiede più quella sensibilità che era stata la scintilla dell’amore (“Quindi non smettere di essere un uomo. Dai solo un'occhiata verso di noi quando puoi, Semina un po' di tenerezza, Non importa se piangi”).
E poi, nel ritornello, quell’invocazione, quel grido disperato, estremo, ma vano tentativo, di tenere in piedi un rapporto che non ha più ragione d’essere:” Dammi una ragione per amarti, Dammi una ragione per essere una donna, Voglio solo essere una donna”.
La canzone, anche a causa del video, in cui uomini e donne si scambiano i ruoli, fu inizialmente male interpretata da parte del pubblico, che travisò le liriche come se quella della Gibbons fosse una richiesta al proprio uomo di prendere in mano le redini della relazione. La cosa fece molto infuriare la cantante che, resasi conto che la gente aveva frainteso i suoi sentimenti, cominciò a considerare la canzone solo un mero prodotto di consumo, un veicolo per arricchirsi e niente più.
Non è un caso, infatti, se Dummy, trainato proprio da Glory Box, ebbe un successo commerciale ragguardevole, conquistando dischi d’oro e di platino praticamente in ogni angolo del mondo. E ciò, nonostante sia un album non facilmente digeribile, cupo, malinconico, di quelli che spingono verso una dimensione parallela, in cui ogni ascolto pretende il suo tributo di lacrime, palpiti e struggimenti.