Resterà, probabilmente, il segreto meglio custodito di questo 2024, ed è un vero peccato. Perché Glovemaker, album d’esordio del losangelino Loren Kramar, è un disco di una bellezza disarmante, uno di quelli che bisogna farsi violenza per togliere dal lettore, e che finisce per lasciare l’ascoltatore sospeso in un limbo in cui non esiste altro, se non una voce splendida e melodie senza tempo, che sbriciolano il cuore senza pietà.
Aspirazione estatica. Dubbio. Prossimità. Desiderio. Passione. Il songwriter californiano si imbelletta il volto e veste i suoi colori più sgargianti, si pone al centro della scena, anela visibilità, desidera la gloria e tutti gli occhi addosso. Lo dice con sincerità disarmante: “sono una troia per tutti i miei sogni, faccio la puttana per loro”. E’ questo il succo di Glovemaker, un disco che parla degli abiti che indossiamo per essere visti dal mondo, per contare qualcosa. E’ un anelito che riguarda tutti, la nostra vita di comuni mortali, in cui ogni cosa è esposta, e non vogliamo, non possiamo nasconderci, non importa quali guanti indossiamo.
Siamo lì, ogni giorno, al centro della scena. Non è vanità, non è ricerca dell’effimero, è semplicemente vita, dare un senso all’esistenza, travalicare l’assunto pirandelliamo dell’uno, nessuno, centomila. Uno basta: è Kramar, siamo noi.
I testi del songwriter losangelino assumono le sembianze di deliziosi orpelli, luccicando coraggiosamente, e poi, altrettanto velocemente, arricciandosi, si trasformano in fragilità da esporre sotto i riflettori, con l’unico pudore della dignità. Kravar è sempre stato ossessionato dalla fama, non quella acquisita tramite il successo, ma quella che nasce dall’insopprimibile desiderio di essere visti davvero. Lui, un bambino cresciuto nella Valley, costretto a nascondere le sue Barbie al padre, chiuso in un stanza brulicante di sogni di libertà, viveva l’aspirazione di essere conosciuto per ciò che era, senza nascondersi, senza fare carte false per mistificare la propria sessualità.
Un ragazzino consapevole di essere gay, e che, come tutti i ragazzini, sognava un futuro avvincente, un futuro da star. Sogni che potevano svanire di fronte al pane duro dell’esistenza, che non fa sconti alla diversità, e che invece si sono realizzati grazie alla mamma di Loren, che lo portò segretamente a prendere lezioni di tip tap, jazz e pattinaggio artistico.
Oggi Kravar può finalmente cantare, senza paura, come fa in "Hollywood Blvd", “ho mani e piedi da mettere nel cemento”, una canzone, questa, che risuona della coraggiosa spavalderia di chi vede il traguardo a portata di mano. In "Gay Angels", poi, il musicista ci ricorda che l’infatuazione per la celebrità è indissolubilmente legata alla sua diversità e al suo desiderio di vivere al di fuori della paura. Essere famosi significa essere fuori. Essere conosciuto. Essere se stesso.
Il disco, inoltre, è un'apertura estatica all'amore e alla solitudine, ai sogni e alle promesse, a tutto ciò che Los Angeles offre. Un omaggio alla rutilante metropoli, alla città delle infinite possibilità, raccontata, come già aveva fatto Lana Del Rey, con uno sguardo capace di spostarsi dalla luce del sole e dalla frenesia della gente, per creare nuovi spazi, e accompagnare l’ascoltatore attraverso bar bui, arene con luci stroboscopiche, bungalow con moquette beige e autostrade illuminate di giallo.
Un percorso tracciato da un mix scintillante di pop, soul, jazz e blues, in cui i lustrini di un appassionato tocco glamour evaporano, spesso, nell’intimismo della meditazione, nel languore vellutato di ballate che cercano l’estasi della malinconia. Un mondo musicale, quello di Kramar, in cui il musicista si prende tutto, le lacrime, i sorrisi, il rigoglioso affastellarsi di arrangiamenti eleganti e charmant, e la francescana purezza di melodie che toccano il cuore senza alcun artificio.
La citata "Hollywood Blvd" apre il disco con una grazia sopraffina, è Kramar che presenta al mondo il suo mondo, un avvolgente ballata soul pop, screziata di umori jazzy, che possiede la progressione melodica di alcuni brani dei Madrugada, attraverso una straordinaria interpretazione vocale, in cui un velluto baritonale convive con gli accenti di un melodrammatico falsetto. Una canzone strepitosa, la prima di una scaletta che non fa prigionieri, e che, ad esempio, ruba emozioni a mani basse con la melodia scarna e luminosa di "Euphemism", voce e handclapping a creare un miracolo di appassionato lirismo.
"I’m A Slut", un blues dall’incedere bizzarro, trova un’improvvisa svolta melodica in un ritornello sublime, mentre "Like A Lover" fluttua a mezz’aria in una leggerezza estatica che lascia senza parole ed evoca, nella voce e nella melodia, la musica celestiale di Anohni. Pianoforte e archi avvolgono di malinconia la voce appassionata di Kramar in "Gay Angels", un’elegia sospesa fra terra e cielo, un’estasi liberatoria che si gonfia in un’altra straordinaria progressione che ricorda ancora una volta i Madrugada. Il drumming cadenzato e la metrica scarna del pianoforte della title track aprono, invece, ad atmosfere jazzy, in cui la voce di Kramar veste i panni di Mark Hollis per un brano che sembra uscito da Spirit Of Eden.
C’è spazio anche per il divertissement sgangherato di "Birthday Thursday", prima che il disco viri verso un filotto di ballate da capogiro: echi sixties nel folk pop di "Whatever Happens", tensione melodrammatica nel doloroso memoire di 15 Years, ascensione spirituale nella vertigine estatica di "Oh To Be", struggimento malinconico nella meditabonda e conclusiva "No Man", che evoca nuovamente la celestiale bellezza di alcune canzoni di Anohni.
Glovemaker lambisce il capolavoro, termine che, spesso e un po’ frettolosamente, usiamo per album che non hanno la metà della caratura artistica di questo esordio. Il quale, ci scommetterei, pur destinato a restare un prodotto di nicchia, finirà nella top ten di chi avrà avuto la fortuna di ascoltarlo. Meraviglia.