Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
15/04/2018
Goat Girl
Goat Girl
L’omonimo album di esordio del quartetto londinese sorprende per l’originalità con cui la band crea l’alchimia per far coesistere post-punk, indie-rock e un sacco di altre cose che è difficile spiegare.

C’è giustamente molto clamore (o molto hype, come dicono i siti di recensioni più fighi) intorno alle Goat Girl. Intanto perché, avendo vent’anni, hanno il tempo dalla loro. Poi perché, come tutti i giovani esuberanti, fanno le cose come vogliono (giustamente) e non danno retta ai tromboni come noi che si fanno in quattro per inquadrarle in qualcosa. Vi sembra un gruppo indie? Somigliano così tanto a uno dei tanti complessi tutti al femminile che mandano in visibilio la critica maschile con gli ormoni gonfi come semibrevi?

L’approccio scazzato alla musica costituito da Clottie Cream alla voce, la chitarrista L.E.D., Naima Jelly al basso e Rosy Bones alla batteria (speriamo per loro che si tratti di nomi d’arte) fa la differenza e riesce a non far retrocedere mai le tracce dell’omonimo album d’esordio sotto gli standard di qualità che ci aspettiamo.

Anzi, per essere in zona post-punk e lo-fi, il disco è suonato decisamente bene, con parti strumentali ritmiche e musicali sempre di ottimo livello, arrangiamenti ricercati che comunque non ledono lo spirito naif, involontariamente ribelle e fintamente nichilista, un mood che varia con disinvoltura da momenti più indie-rock a ballad tra il folk e il songwriting, qualche venatura da Lana Del Rey, qualche strokesata, passatemi il termine, ogni tanto qualcosina che rimanda ai Pixies ma il tutto amalgamato a concept. Complice il sapiente uso di interstizi sonori da qualche manciata di secondi tra una traccia e l’altra, campionati chissà dove e de-strutturati per l’occasione. E se vi fate un giro su Youtube per vedere cosa combinano dal vivo, le ritroverete tali e quali al disco, con la stessa precisione con cui suonano cose pur semplici ma così efficaci da risultare perfette per l’effetto che le Goat Girl si sono preposte.

Difficile anche mettere in lista le canzoni delle Goat Girl in base a quello che ci piace di più. Meglio “Burn the stake” dal sapore vagamente gotico (potremmo tirare in ballo Siouxsie) o la successiva “Creep”, dall’incipit così scarno da sembrare la versione innocente del brano precedente di cui conserva solo ritmo e struttura con il plus della trama, abbellita addirittura da un violino, che sembra chiedere scusa per quanto sentito prima? Oppure “Viper Fish”, ancora costruita sullo stesso tempo di batteria, pronta a condurci lungo i tenebrosi e inquietanti territori del dark blues?

La musica cambia con “Cracker Drool”, con quella chitarrina country che, malgrado le apparenti incompatibilità generazionali, se la intende a meraviglia con una poco raccomandabile drum machine giocattolo durante la strofa, per poi convertirsi alla distorsione per darci dentro in un convincente ritornello. “Slowly Reclines” ci riporta poco dopo alle cose più serie, allo stesso modo in cui la traccia successiva “The man with no heart and no brain” ci lascia precipitare in una scena da teatro musicale dell’assurdo.

Un episodio a sé è costituito da “The man”, il brano pubblicato come singolo a febbraio e corredato di video, una traccia che cerca un compromesso di genere per posizionarsi in quota indie con bpm tipicamente rock’n’roll, cantato da rimanere incollato in testa e impasto di chitarre avvinghiate peccaminosamente per tutto il brano che si sciolgono in chiusura in un solo che è la morte sua, per il tipo di canzone che è.

Tra musica e interludi siamo già arrivati, intanto, a quota 11. “Lay Down” è un tre quarti poco elettrico dall’armonia familiare che fa risaltare il contrasto tra l’arpeggio iniziale di chitarra della successiva “I don’t care” (la parte prima, perché ce ne sono due) con il resto del pezzo. La parte seconda (che vi avevo detto?) ha invece tratti molto fuori dalle righe e ci lascia qualche manciata di secondi per divertirci almeno fino alla crescita heavy del finale, così genuina da non lasciare mai l’ascoltatore in balia del terrore che il tempo di batteria possa raddoppiare, mandando in vacca una scalata al massimo del piacere, pressoché perfetta.

Se vogliamo proprio trovare un richiamo a Lana Del Rey eccolo servito su “Throw me a bone”, ma è talmente casuale, nel contesto di analoghi registri presenti in questo disco, che si può anche soprassedere, evitando così di infierire con una cattiveria più che gratuita. Il pezzo in questione, comunque, è davvero superlativo.

Giusto il tempo, quindi, per un paio di minuti scarsi di post-punk con “Little liar” (ci auguriamo che possa essere scelta come prossimo singolo, tanto è bella) e per il pixismo (nel senso dei Pixies) di “Country” e del suo modo di tracimare così naturalmente in “Tomorrow” da trovarci infine in un silenzio così triste (dovuto al contrasto tra un disco che termina e il ricordo di ciò che il disco stesso ci ha offerto) da indurci a ripartire da capo per vedere, brano per brano, se abbiamo capito bene le Goat Girl e se il disco è davvero così bello.