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REVIEWSLE RECENSIONI
Goddess
Goddess
2025  (Bella Union)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK ELETTRONICA ALTERNATIVE
9/10
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16/06/2025
Goddess
Goddess
Il politeismo in musica si conferma decisamente più sostenibile di qualunque altra idolatria. Dieci divinità più una a dirigere un olimpo di spessore dalla cabina di regia. Siamo davvero pronti per Goddess?

Uscite in una fase di risacca tra le due ondate del post-post punk (la prima, quella di Turn On The Bright Lights, e la seconda e decisiva, vent’anni dopo, quella di cui ci troviamo nel pieno) le Savages forse non hanno avuto il riconoscimento e il successo meritato. Probabilmente quello non era il momento più adatto, ma di un disco come Adore Life, pubblicato nel 2025, ora saremmo qui a chiederci quale posizione attribuirgli nella classifica degli album dell’anno.

Un quarto di quella forza propulsiva e quell’ardore sperimentale era dovuto a Fay Milton e al suo drumming trascinante, essenziale e primitivo, perfetto per il sound apocalittico della band.

Messa in stand-by la batteria, la musicista londinese si è votata con passione alla causa ecologista, dando vita al movimento Music Declares Emergency e alla campagna No Music On A Dead Planet, un’iniziativa che ha riunito artisti e professionisti dell’industria musicale per ottenere risposte immediate dei governi all’emergenza climatica. Le canzonette hanno tutto il potere necessario per promuovere un cambiamento culturale e salvare dall'estinzione noi e tutti gli esseri viventi. O almeno a idealizzare la propedeuticità e la parvenza di una rivoluzione.

 

Nel suo progetto Goddess, e nel suo esordio omonimo, troviamo per la terza volta lo stesso ardimento volto a raccogliere energia intorno a un’idea. Questa volta non è uno scontato tentativo post-punk a guidare un’operazione modaiola per meri fini di profitto. Piuttosto, ci troviamo al cospetto di una ricerca più ampia, inclusiva e trasformativa che mette al centro il desiderio, il dolore, il corpo e qualche suggerimento per affrontare tutto questo. Goddess è anche il titolo omonimo di un concept costruito attraverso collaborazioni all’interno di un pantheon indie, esclusivamente femminile e non binario, che alterna urgenza politica, visioni dark, riflessioni esistenziali e abbandoni sensoriali, il tutto sostenuto da una produzione che mette in discussione l’industrial grazie al trip hop, e l’alternative attraverso il songwriting più viscerale.

L’idea di Goddess è nata già pronta all’uso e con un obiettivo preciso: onorare la sorellanza e l’energia comunitaria che si crea quando musiciste indipendenti collaborano mosse dall’impeto della ricerca senza compromessi. Fay Milton ha trovato in questo approccio una libertà nuova, priva dei vincoli e delle convenzioni dell’industria musicale, a partire dall’ossessione di quel circo itinerante che è l’esibizione live. Il disco, così, si attesta a organismo collettivo e modulare. Non una band, non un progetto solista, ma un’entità dinamica in grado di crescere e cambiare forma. Un movimento a cui aderire per mettere al centro la comunione di intenti, un non-luogo in cui la metodicità messa a click e arricchita dai campionatori dei Massive Attack incontra l’anarchia guitar based delle Desert Sessions di Josh Homme.

 

Il disco si apre con “Little Dark”, una ballad magnetica cantata da Shingai (ex Noisettes) e che centellina emozioni senza ritorno di una Londra post-pandemica attraversata a piedi. È un brano crepuscolare, dolente e allo stesso tempo rivolto verso una nuova alba in cui un timbro cristallino risuona dominando i rumori inquieti di sottofondo. Un traccia che lascia graffi sulla pelle (provate a rialzarvi illesi dopo il vortice che, a metà della canzone, inghiotte qualunque cosa senza lasciare superstiti) e che mette subito le cose in chiaro: Goddess non è un disco per poser.

“Shadows”, seconda traccia e primo estratto pubblicato come singolo, è già un inno a sé. L’interpretazione solenne e vulnerabile dell’amica Elena Tonra (l’anima dei Daughter) vibra sospesa tra il basso ingombrante di Ayse Hassan (anche lei ex Savages, la prova che all’interno delle sezioni ritmiche nascono e crescono sodalizi indissolubili) e le linee di pianoforte dell’artista Hinako Omori. Ci troviamo di fronte a una delle vette del disco, un brano che implode su un ritmo la cui fragilità è fin troppo evidente, dominato dalla voce che si irradia dalle macerie sonore.

Tra gli episodi più viscerali troviamo anche “Animal”, cantata da Delilah Holliday, icona underground delle autoproduzioni londinesi. Un’ode sensuale e minacciosa diretta alla componente più istintiva dell’essere umano. È lei a decidere il gioco quando ci intima, con tono velenoso, “scusate il mio comportamento, non sono altro che un animale”, accompagnata da una ritmica e da sequenze di synth che risuonano come una minaccia. E ancora più brutale è l’esplicita “Fuckboy”, un bombardamento industrial diretto da una linea di basso ostinato che evoca i fasti di “Army Of Me”, con la performer Salvia a incarnare tutto il fastidio e la freddezza che il titolo promette in una combinazione che va a ferire i sentimenti con precisione chirurgica.

 

Ma Goddess sa offrire ben altri registri di tensione. In “Golden”, versione in inglese di “Grande” degli Afterhours, la voce di Stevie Parker è accompagnata da una toccante melodia di pianoforte che si apre in un abbraccio orchestrale. Un omaggio intimo all’amicizia di Fay Milton con Manuel Agnelli, e un raro esempio di remake che riesce ad aggiungere valore al brano originale.

Di “Bad Child” colpisce l’attenzione alle parti di batteria, con un pattern che tradisce una piacevole ingerenza dovuta a una più che giustificata deformazione professionale. Il featuring dell’amica Isabel Muñoz-Newsome contribuisce a rendere indelebile l’amarezza delle parole mentre si parla di relazioni mai abbastanza archiviate.

A Bess Atwell e la sua “Darling Boulevard” il merito di riportarci nelle tonalità più cupe del disco, una sorta di proemio all’atmosfera in cui Izzy Bee Phillips intona la suadente melodia di “Diamond Dust”, quasi una nemesi acustica del brano precedente. Con “Bounce” è la producer Grove a riportarci - con il suo quattro quarti serrato - a forza nella dancehall. Fino alla traccia finale, quella “22nd Century”, brano di Exuma reso celebre da Nina Simone, qui reinterpretata con devastante sincerità da Harriet Rock. La sua voce scava e brucia in un crescendo cannibale, un racconto di un mondo al collasso con le stesse parole scritte nel 1970 e oggi amaramente profetiche. “Non c’è ossigeno nell’aria”, questa è l’ironia della sorte. Più che una visione distopica, siamo nei pressi di una cronaca del quotidiano.

 

Ma non è un saltare di palo in frasca. C’è una coerenza sorprendente in Goddess, proprio grazie alla sua natura composita. Ogni brano è una storia (e un’interprete) a sé, ed è la direzione artistica di Fay Milton a tenere tutto insieme con una sensibilità rara. Un destino nel nome: Goddess incarna davvero la potenza di manovrare le cose e rimanere pienamente se stessi, senza compromessi, per restituire al mondo (sotto forma di tributo musicale) quanto si è assorbito dalle personalità artistiche più influenti della propria vita.

L’impressione è che Goddess non sia solo uno dei dischi più ispirati dell’anno, ma anche una nuova accezione della musica d’insieme, in tempi in cui tra i solchi dei dischi si è detto quasi tutto: un suono collaborativo, sostenibile, sensibile ma radicale. È un invito a creare comunità, a mettersi a nudo, a non chiedere il permesso. Un album di rinascita e affermazione, un rituale collettivo e sonoro che affronta l’incertezza del presente. La portata di Fay Milton si conferma invincibile anche senza la sua batteria. Un’energia che costruisce ponti, scatena incendi e raccoglie anime intorno a sé. Forse qualcosa sta davvero cambiando, e questo disco è un segnale, se non addirittura la strada maestra da prendere.