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REVIEWSLE RECENSIONI
11/06/2018
Father John Misty
God's Favorite Customer
Di per sé questo “God’s Favorite Customer” ci ha colti di sorpresa: “Pure Comedy” era uscito solo un anno fa e non era lecito aspettarsi così presto un altro disco di inediti.

Al Primavera Sound di quest’anno ho guardato il concerto di Father John Misty assieme ad un amico che non lo conosceva e a metà set il suo commento è stato particolarmente illuminante: “Se questo qui fosse vissuto negli anni Settanta avrebbe fatto i miliardi.”. Difficile, in effetti, non rimanere incantati dalle sue ballate piano e voce, dalle melodie ruffiane ma sempre maledettamente azzeccate, a cui l’orchestra conferisce una raffinatezza e un tocco senza tempo che non guasta mai. Lo aveva detto anche Claudio Todesco, recensendo il precedente “Pure Comedy”: un tempo uno come Joshua Tillman sarebbe stato una cosa a parte, rispetto al mondo del Pop di cui ci occupiamo oggi. Ma oggi che le barriere sono saltate, anche lui, che pure aveva a suo tempo partecipato alla più felice stagione dei Fleet Foxes (quella di “Helplessness Blues”, tanto per capirci) può permettersi di avviare una carriera solista zeppa di lavori senza tempo, che hanno comunque nel cantautorato anni ’70, da Billy Joel ad Elton John, il loro punto di riferimento privilegiato.

Di per sé questo “God’s Favorite Customer” ci ha colti di sorpresa: “Pure Comedy” era uscito solo un anno fa e non era lecito aspettarsi così presto un altro disco di inediti. Ma Mr. Tillman è un autore prolifico, scrive anche per altri e deve avere accumulato idee ed esperienze a profusione, tanto da convincersi che fosse giunto il momento per quello che è il quarto capitolo della sua carriera solista.

Il genere è sempre quello, le coordinate musicali non sono per nulla variate; il punto di partenza è tuttavia ben diverso: se “Pure Comedy” si configurava come una riflessione un po’ ironica e un po’ cinica su una razza umana alla deriva e senza molte speranze di approdare ad una nuova era di ragionevolezza, questo nuovo lavoro prende le mosse dalle vicende personali del protagonista e si presenta come una sorta di diario intimo di ciò che è successo negli ultimi sei mesi della sua vita. Joshua Tillman, lo ha dichiarato lui stesso, ha passato tre mesi in un albergo, in una situazione di “dire straits”, per usare le sue parole (difficilmente traducibile in italiano, diciamo che non se la passava molto bene), vittima di una crisi depressiva i cui contorni non sono stati giustamente raccontati.

Ne deve essere riemerso alla grande, comunque: a vederlo a Barcellona, il giorno stesso dell’uscita del disco, ci è sembrato in forma anche se più concentrato e meno gigione del solito. Del resto, la decisione di buttare fuori dieci canzoni in fretta e furia, tutte dedicate al brutto periodo di cui sopra, non possono che far pensare ad una lunga seduta di analisi nel tentativo di comprendere e lasciarsi alle spalle ciò che è accaduto.

Il disagio psichico era già stato messo in luce nel video di “Mr. Tillman”, una delle song più vivaci del lotto, dotata di una melodia circolare che entra bene in testa: c’è lui al desk di un hotel, mezzo imbambolato, all’interno di quello che può sembrare un set cinematografico. C’è un altro lui che cade sul tetto di un taxi, si riprende e corre via; il tutto mentre quella prima versione del protagonista lo guarda basito all’interno dello stesso veicolo e non sa capacitarsi di ciò che è accaduto. La storia si muove come in loop, coi due io narranti che appaiono intrappolati in un plastico dell’isolato e non riescono a trovare il modo di sbrogliare la matassa.

Ancora più esplicito è quello di “Please, Don’t Die”, languida e romantica ballata che, nel suo essere telefonatissima, raggiunge lo stesso uno dei picchi emotivi del disco. Realizzato in stop motion, con figure di plastilina, mostra la stanza d’albergo del protagonista, in uno stato di abbandono da racconto di Carver; successivamente, i propositi suicidi di cui parla la canzone si concretizzano in una allegorica discesa agli inferi (con tanto di Morte/Caronte che lo trasporta sulla sua barca), finché la moglie, in versione supereroe con due angeli al suo fianco, arriva a soccorrerlo e lo porta in cielo.

Depressione, crisi coniugale, desiderio di farla finita, riscatto: è questa la parabola raccontata nelle dieci canzoni di questo lavoro. Che mettono in scena anche la grande, eterna, dicotomia tra l’artista come personaggio pubblico e l’uomo che vi si nasconde dietro. Parafrasando una strofa di “Just Dumb Enough To Try”: “conosco il mio pubblico e sono in grado di far commuovere tutti cantando una canzone; ma le cose che so realmente di te riempirebbero a stento un piccolo palloncino”. Non si finisce mai di conoscere l’altro fino in fondo e nel momento in cui si sogna una storia d’amore perfetta, bisognerebbe ricordarsi (dice in “Disappointing Diamonds Are the Rarest of Them All”) che ogni relazione ha i suoi alti e bassi, è unica nel suo genere e che è l’accettare le brutture e le imperfezioni che consente di viverla appieno.

Ci si può rinchiudere in un albergo per un po’, a crogiolarsi nelle proprie fragilità, ma ad un certo punto è necessario uscir fuori e riprendere a scrivere canzoni d’amore per la propria moglie, essere “abbastanza stupidi da provarci”, appunto, perché questo è il talento che si è ricevuto in dono e sarebbe folle pensare di gettarlo via. È il risultato a cui Father John arriva verso la fine: in “The Songwriter” si chiede ironicamente che cosa succederebbe se fosse la sua adorata Emma ad avere il dono della scrittura e ad utilizzare il marito come fonte di ispirazione. Invertendo le parti, riflette su che cosa voglia dire fare di una donna la propria musa, metterla a nudo e, pur in mancanza di una soluzione esplicita, si intuisce che la conclusione a cui arriva è che sia giusto così, sempre per quel discorso del dono di cui dicevamo prima.

La title track è poi un riferimento ironico all’educazione religiosa che ha ricevuto da bambino, riflessa in qualche modo anche nel monicker che si è scelto per incidere i suoi dischi. Non lo è più, ora, il cliente preferito di Dio. Ne ha nostalgia? Vorrebbe tornare ad esserlo? Non lo dice e probabilmente la risposta è no. Nel pezzo però traspare un desiderio di essere amato e compreso che è quanto di più autenticamente umano possa esserci. C’è poco da fare, del resto: non si può uscire da una stanza d’albergo dove ci si è rinchiusi in un esilio volontario fatto di alcol e di anfetamine, senza la certezza che c’è qualcuno pronto a volerci bene sempre e comunque.

Ed infatti il disco finisce con “We’re Only People (And There’s Not Much Anyone Can Do About That”), un brano pieno di groove e di solarità, disincantata ammissione che ognuno di noi è un mistero e che fare i conti con questa verità è l’unico modo per poter continuare a vivere serenamente.

Se paragonato al precedente, è possibile che “God’s Favorite Customer” possa soffrire di una certa mancanza di ispirazione e di una certa ripetitività. “Pure Comedy” era senza dubbio più curato e stratificato anche se pure in quel caso eravamo lontani dai livelli di “I Love You, Honeybear”, che al momento rimane il suo lavoro meglio riuscito. Il rifugiarsi in una proposta più lineare e standardizzata non ha comunque inficiato la proposta di Joshua Tillman, che ha saputo raccontarsi egregiamente attraverso un lotto di canzoni prevedibili ma pur sempre deliziose.

Il suo è un valore che si coglie soprattutto dal vivo, comunque. Se non lo avete mai fatto, approfittate della prima occasione che ci sarà e andate a vederlo: capirete che quest’uomo, nonostante i suoi alti e bassi e questo suo essere costantemente fuori tempo massimo, è davvero un talento unico.