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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
12/03/2025
Live Report
Godspeed You! Black Emperor, 11/03/2025, Estragon, Bologna
I Godspeed You! Black Emperor non fanno un semplice concerto, c'è qualcosa di dannatamente serio e rituale nel modo in cui suonano: evocano visioni talmente urgenti che chiedono un’immersione totale a cui è impossibile sottrarsi. Il live all'Estragon di Bologna, aperto da Mat Ball, progetto parallelo del chitarrista dei Big/Brave, è stato così. Qui il nostro racconto.

Una trasferta a Bologna in piena settimana non è esattamente la cosa più comoda del mondo, eppure, se di mezzo ci sono i Godspeed You! Black Emperor, rischia di trasformarsi in una scelta obbligata. La band canadese sul palco ha da sempre trasceso la semplice dimensione live, con concerti che hanno il potere di risucchiare completamente lo spettatore nelle profondità incognite della loro visione del mondo. Aggiungiamoci il disco dell’anno scorso, quel No Title as of 13 February 2024 28.340 Dead, che ha saputo dire qualcosa di profondo sulla tragedia di Gaza senza utilizzare nessun mezzo che non fosse la potenza evocativa della musica, e capirete perché, quando è arrivata la notizia che il nuovo tour di Efrim Menuck e soci non avrebbe toccato Milano, non ho avuto bisogno di riflettere troppo.

Raggiungere l’Estragon non è stato esattamente una passeggiata: lo storico locale bolognese, nel quale non ero mai stato, non è posto poi così lontano dal centro, ma la piacevole camminata per arrivarci si è arenata a circa 500 metri dalla meta, quando, assieme ad altri sventurati ugualmente disorientati, mi sono imbattuto in due strade chiuse. È venuto fuori che l’unico modo per arrivarci sarebbe stato quello di raggiungere la superstrada e farsi l’ultimo pezzo a piedi, fino all’uscita designata. Alla fine, scavalcare un cancello e raggiungere l’ingresso dal retro è sembrata un’opzione decisamente più comoda (e sicura, soprattutto!).

Il concerto è sold out ma quando finalmente faccio il mio ingresso mi accorgo che non c’è ancora nessuno, nonostante manchi meno di un’ora all’inizio del set dell’opening act. Sta a vedere che in quanto ad arrivi all’ultimo momento i bolognesi sono riusciti a superare noi milanesi?

 

Alle 20 precise sale sul palco il chitarrista dei Big/Brave Mathieu Ball, qui in azione con uno dei suoi numerosi progetti paralleli, Mat Ball. Sotto questo monicker il musicista di Montreal ha pubblicato due dischi, entrambi intitolati Amplified Guitar, che costituiscono ovviamente il tema della sua esibizione. Per chi è famigliare col sound della sua band madre, non siamo su territori molto distanti: il suo stile è sempre rumoroso e abrasivo, ricco di feedback e distorsioni, con pochi squarci di melodia isolati in un profluvio di tessiture atonali.

Il quadro finale parla di muta e desolata devastazione, un chitarrismo che prende le mosse dal Metal ma, come accade anche nei Big/Brave, per superarlo e muoversi in zone più vicine alla Drone Music, almeno nel feeling generale. Verso la fine Mathieu è raggiunto da Mike Moya, uno dei chitarristi in forza agli headliner, che lo accompagna con un tappeto discreto di note.

Un set decisamente affascinante, una proposta senza dubbio più ostica di quella che ci accingiamo ad ascoltare, ma posta su una evidente linea di continuità, a conferma del fatto che attorno GYBE si è sviluppata negli anni una folta comunità di musicisti che ne condivide l’estetica e la visione.

 

Come da tradizione, il concerto dei GYBE inizia con “Hope Drone”, la lunga composizione che funge da intro e che vede l’ingresso uno a uno di tutti i componenti del gruppo. Questa volta sono la violinista Sophie Trudeau e il bassista Thierry Amar (qui al contrabbasso) ad arrivare per primi, con le loro suggestioni cameristiche che vanno avanti per qualche minuto, prima di essere doppiate dai restanti sei membri della formazione, che si aggiungono gradualmente. Nel mentre, sullo schermo posto alle loro spalle, dove da sempre un proiettore analogico trasmette evocativi visual, compare la parola “Hope”, come a sposare il senso di liberazione che gli istanti finali del brano provano a comunicare, e quasi a dare un senso programmatico a tutto il concerto, in voluto contrasto con i tempi bui che stiamo vivendo.

Se la musica può contenere un messaggio politico e, come in questo caso, se della musica prettamente strumentale può trasmettere un messaggio molto più forte di qualunque comunicazione verbale, quella dei Godspeed You! Black Emperor ne costituisce il paradigma perfetto.

I primi brani in scaletta, non a caso, provengono dal nuovo album: “Sun Is a Hole Sun Is Vapors”, “Babys In a Thundercloud” e “Raindrops Cast in Lead”. Si tratta di alcune delle composizioni più aperte e melodiche che il gruppo abbia mai realizzato, e quando pensiamo all’occasione da cui hanno preso le mosse, non si può non pensare che in questa sorta di ossimoro vi sia un senso che ciascuno di noi è chiamato ad afferrare.

Il tema principale isolato dalle chitarre è come sempre reiterato e gradualmente amplificato, col violino che ricama un tappeto che man mano monta d’intensità, fino all’esplosione finale dettata dalla distorsione delle chitarre e dall’incalzare della doppia batteria. Una deflagrazione che non è mai rabbiosa ma, piuttosto catartica e a tratti celestiale, che si esaurisce bruscamente col ritorno alla singola chitarra che riprende il tema portante.

Si tratta di uno schema collaudato e ripreso più volte, pur con qualche eccezione (la lunga accoppiata “Pale Spectator”/“Grey Rubble” presenta una struttura più cangiante e articolata) ma la precisione e l’abnegazione assoluta con cui lo portano avanti, diretti da un sempre impeccabile Efrim Menuck, mai così come ora nelle vesti di patriarca saggio del gruppo, garantisce ogni volta un fascino immutato.

 

L’ho detto all’inizio, un concerto dei Godspeed You! Black Emperor non è un semplice concerto: c’è qualche cosa di dannatamente serio e di quasi rituale nel modo in cui, sempre rigorosamente seduti in cerchio, col bassista Mauro Pezzente unico elemento in piedi, suonano a memoria ed evocano visioni talmente urgenti che ci è chiesta una vera e propria attività di ascolto, un’immersione totale a cui è impossibile sottrarsi (e infatti anche all’Estragon, complice anche la perfetta resa sonora, non vola una mosca, la tensione è palpabile, specie nelle fasi di più ostinato crescendo).

Il resto della scaletta è dedicato ad episodi più o meno collaudati, che in un live dei nostri solitamente non mancano mai: “Fire at Static Valley” è un residuo del tour precedente ed è una delle tracce più dirette del lotto; “World Police and Friendly Fire” è pazzesca nella sua intensità, un furioso deflagrare sottolineato ancora di più dalle immagini delle fabbriche in fiamme proiettate alle loro spalle; in chiusura, l’arpeggio discreto di “The Sad Mafioso” provoca un vero e proprio boato in sala, visto che da sempre questa specifica sezione di “East Hastings” è tra le più amate in assoluto del loro repertorio. L’abbiamo ascoltata un sacco di volte ma ogni volta è uno stupore nuovo; in particolare questa sera, l’accelerazione finale è veramente da brividi e sembra contenere in sé tutta l’urgenza di significato che abbiamo vissuto durante queste quasi due ore in totale apnea.

Finale come al solito, con il rumore bianco della traccia a rimanere in sottofondo, mentre uno a uno i vari componenti lasciano il palco, rivolgendo ai presenti non più che un breve cenno di saluto (non ce n’è bisogno, hanno comunicato più che con mille parole).

Mai come questa sera credo che accomunare i canadesi sotto l’etichetta, seppur sensata, di “Post Rock” appaia decisamente riduttivo: qui siamo veramente oltre tutto ciò che possiamo immaginare.

Già iniziato il conto alla rovescia per rivederli, ed è un bisogno che difficilmente si stempererà col tempo.