Siete disposti a farvi percuotere a sangue i padiglioni auricolari per tre quarti d’ora? Ve la sentite di affrontare questa mattanza sonora, che non dà tregua, che non fa prigionieri, nonostante sia ispirata dal raggiungimento di un bene superiore? Se la risposta è no, abbandonate immediatamente questa recensione, perché non c’è nulla che fa per voi: nessuna melodia, nessuna condiscendenza, ma solo rabbia, furore e disperazione.
Il nuovo album degli Human Impact, Gone Dark (un titolo, un programma), è la disperata, ma non arresa, presa di coscienza che il mondo come lo conoscevamo è morto, che il limite è stato valicato irrimediabilmente, e che la speranza, che il grande Monicelli definiva una trappola, è una scoria residuale in una società ormai alla deriva.
Per questo secondo capitolo della breve discografia degli Human Impact (registrato al Cedar Creek Studio di Austin in collaborazione con il produttore Andrew Schneider), Chris Spencer, chitarra e voce degli Unsane, e Jim Coleman dei Cop Shoot Cop, si sono fatti affiancare dal bassista Eric Cooper (Made Out of Babies, Bad Powers) e dal batterista Jon Syverson (Daughters), che hanno sostituito rispettivamente Chris Pravdica e Phil Puleo.
Basta una fugace lettura ai titoli delle canzoni per comprendere come Gone Dark guardi in faccia alla realtà senza compromessi, fotografando lo schifo e lo squallore di ciò che siamo costretti a vivere ogni giorno. Non ci sono filtri (e perchè mai dovrebbero essercene?), tutto è abisso, è dolore, è perdita. Gli Human Impact sono (giustamente) molto incazzati, ma lo sguardo è quello di una rabbia e di un’angoscia collettiva, la visione è quella del “noi”, il “noi” di un’umanità vessata, frustrata, corrotta al midollo, persa e sull’orlo del collasso. Lucida presa di coscienza, ma anche invito a reagire a non mollare, anche se, forse, tutto è ormai inutile. Un incubo solo apparentemente distopico, ma inquietantemente concreto, figlio di uno scenario che solo vent’anni fa sarebbe sembrato fantascientifico, ma che ora è pericolosamente alle porte.
"Collapse" mette in scena l’abisso, è una discesa negli inferi: “niente di ciò che facciamo può farci tornare indietro” ringhia Spencer, in un’apoteosi di feroce nichilismo, che appare come unica strada per il conforto. Qui, come in tutto il disco, il suono è compresso, oscuro, la batteria sovraesposta, i riff affilati con precisione chirurgica, la voce disturbata e disturbante, un urlo disperato che non trova mai il conforto della luce. Una miscela abrasiva di noise e furente post punk, tra echi dissonanti dei Shellac, furia cieca dei Killing Joke e i miasmi post hard core dei Jesus Lizard ("Hold On").
"Destroy Rebuild" è un vortice post punk che si risucchia inesorabilmente verso il basso, trasuda terrore e rabbia, mentre Imperative e le sue torbide trame industrial mettono in gioco la militanza politica (“We got lost / Broken industry / Not much thought / Sudden atrophy”), innalzando una barricata pronta al combattimento a fianco della classe operaia.
E se "Corrupted" mostra i muscoli e le vene in una travolgente ondata metallica di rabbia post punk a torso nudo, le dissonanze acide di "Reform" mettono in scena la sciagura di un mondo irreparabile, nei versi, gridati, sputati, belluini di Spencer: "Questo ambiente è fuori controllo / Guarda i fuochi dallo spazio".
Gone Dark ha il valore di un’ultima disperata lettera inviata all’umanità, un ultimo inane tentativo di invitare gli uomini ad aprire gli occhi, a ribellarsi al capitalismo che ci ha messo con le spalle al muro, a mostrare il muso duro e occhi di leoni a una società, che in nome del profitto, ci sta portando via tutto. E anche se, come recita, la conclusiva e angosciante "Lost All Trust", tutto appare perduto, questa musica, come quella di tante band che continuano a militare in un mondo di plastica musicale ed emotiva (Godspeed You! Black Emperor per tutti), ci insegna che una cosa possiamo ancora farla: resistere, per Dio, e rendergliela dannatamente complicata.