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REVIEWSLE RECENSIONI
21/03/2019
The Japanese House
Good At Falling
Amber Bain si muove in ambito synth pop, facendo largo uso di elettronica, e cercando un equilibrio, quasi sempre trovato, fra modernità e retrogusto anni ’80, eleganza formale e un’intensità comunicativa che tocca spesso e volentieri le corde della malinconia.

Inglese, originaria del Buckinghamshire, Amber Bain, nome che si cela sotto il moniker The Japanese House, ha solo ventitre anni e un pugno di Ep alle spalle; eppure, ad ascoltare questo esordio sulla lunga distanza, si direbbe una musicista scafatissima, che sa esattamente cosa vuole e dove andare.

Accasatasi con la Dirty Hit (che ha tra i suoi artisti di punta i 1975 e i Wolf Alice), Amber ha perfezionato negli anni, pochi a dir la verità, un proprio linguaggio musicale, decisamente più forbito che nei precedenti lavori, e si è fatta affiancare, in sede di produzione, da BJ Burton (Bon Iver) e George Daniel (batterista dei The 1975), che hanno saputo rendere levigare le ottime idee della giovane songwriter, forgiando un suono che possiede già una precisa e ben marcata identità.

Le tredici canzoni in scaletta respirano un’aria diversa rispetto a quella che si potrebbe supporre, leggendo i nomi poc’anzi citati: Amber, infatti, si muove in ambito synth pop, facendo largo uso di elettronica, e cercando un equilibrio, quasi sempre trovato, fra modernità (l’uso dell’auto-tune, gestito con misura) e retrogusto anni ’80, eleganza formale e un’intensità comunicativa che tocca spesso e volentieri le corde della malinconia.

La Bain gioca bene le sue carte, a partire dall’opener Went To Meet Her, che utilizza con sapienza l’auto-tune (personalmente, non amo la manipolazione vocale, ma nello specifico non l’ho trovata affatto disturbante) per virare poi repentinamente verso atmosfere calde e avvolgenti; così come lasciano piacevolmente stupiti la sfarfallante leggerezza di Maybe You’re The Reason, con quel ritornello a presa immediata che si inizia a canticchiare fin dopo il primo ascolto, o gli echi eighties di We Talk All The Time.

La songwriter inglese fa anche meglio quando imbocca la strada della semplicità con You Seemed So Happy, indie pop zuccherino che rimette al centro della narrazione la chitarra, o cita (involontariamente?) i Prefab Sprout con le atmosfere leggiadre e sognanti di Marika Is Sleeping, o colora a tinte leggermente melò il saliscendi emotivo di Everybody Hates Me.

Se si vuole trovare un difetto, che forse il tempo riuscirà a cancellare, è quello di un eccesso di stratificazione nei suoni, che rendono alcuni brani pretenziosi e freddi, come se ti tenessero a distanza di braccio. Per il resto, questo esordio è più che interessante, e il talento della Bain e la sua acuta consapevolezza di sé, si esprimono in un pugno di canzoni che sarà piacevole continuare ad ascoltare anche fra qualche mese.