«Sono d'accordo molto raramente con l'espressione “Miglior chitarrista”. Mi sembra veramente osceno inserire qualcosa di così soggettivo nella categoria del migliore. Ma se dovessi dire che ce n'è uno, sceglierei Allan Holdsworth".
(Parole di Steve Vai in un estratto recentemente rilasciato come anteprima di un documentario di prossima uscita su Allan Holdsworth)
Allan Holdsworth, scomparso nel 2017 a settant’anni, è indiscutibilmente nel pantheon dei geni della chitarra dell’era moderna. La sua musica rappresenta una sintesi tra vari stilemi e linguaggi limitrofi ed affini al jazz, dalla fusion al prog rock.
Il suo palmarès è noto, basta citare nomi del calibro di Tempest, Soft Machine, Tony William’s Lifetime, Bruford e U.K. per rendersi conto di come sia stato, insieme a John McLaughlin (pur se in maniera diversa per stile e attitudine) un pioniere del genere. Amante della contaminazione, è titolare di una carriera solista che conta una dozzina di album intervallati a innumerevoli e inaspettate collaborazioni (si va dai Crokus e Stanley Clarke ai Level 42).
Allan vive un bel momento creativo verso la metà degli anni Novanta e Hard Hat Area, sua ottava fatica, ne è un chiaro esempio: insieme alla crema dei session man, con il noto batterista e compositore Gary Husband, un fior di bassista quale l’islandese Skuli Verisson (Lou Reed, David Sylvian e Ryuichi Sakamoto tra i tanti ad aver usufruito di suoi servigi) e l’estroso fidato tastierista Steve Hunt, Holdsworth testa il materiale da inserire nel disco durante i concerti, prima di entrare in studio. Crea così i giusti presupposti, con una sintonia perfetta, l’ossatura giusta e senza perdere il gusto per l’improvvisazione o scadere nell’autoreferenzialità, per mettere a segno uno dei suoi lavori migliori.
Si parte con “Prelude”, giusto per scaldare i motori con un breve brano d’atmosfera, cui segue la travolgente volata fusion di “Runkukah”. Hunt spicca con il piano jazzy di “Low Levels, High Stokes”, e per il tocco felpato sui tasti della delicata “House of Mirrors”, mentre la ritmica si scatena nella title track, ove l’inarrestabile Holdsworth sciorina piroette chitarristiche di alta scuola.
«Amavo Holdsworth e lo conoscevo molto bene, lui ha veramente costruito un pianeta a sé stante, di difficile comprensione e categorizzazione. Allan decise di non seguire le orme del blues, di andare oltre. Il risultato fu una forma di jazz aliena, proprio perché spogliata da alcune radici profonde, come quelle del blues. Era musica nuova».
(Estratto da “Corrado Rustici - Io Sono Corrado”, intervista su ondarock.it, 2018)
Le parole di Corrado Rustici, un altro virtuoso che si è tuffato nel mondo della chitarra e della musica alla ricerca di nuovi mondi e nuove sonorità, al di fuori di schemi e categorie predefiniti, ben descrivono l’essenza di Allan, antieroe per eccellenza, umile e schivo pioniere della jazz fusion incastrata nl prog rock.
Ascoltare le rimanenti tracce di Hard Hat Area è illuminante a riguardo. “Tullio” e l’intelligente chiusura “Postlude” confermano la bontà dell’opera e la grande vena dell’artista britannico, trasferitosi in California a metà anni Ottanta. Un uomo dalla carriera straordinaria, “chitarrista per chitarristi” (Eddie Van Halen letteralmente impazziva per lui!), che, per rivoluzionare il mondo delle sei corde e intraprendere la sua strada, prende ispirazione dal violino e dal modello fiatistico, ai quali si era approcciato da giovane, prima di imbracciare le sue chitarre leggendarie, dalla Gibson SG e le Fender Stratocaster alle Ibanez e Steinberger fino a diventare endorser di Carvin e Kiesel.
Niente faceva presagire l’improvvisa scomparsa di Allan, in una tiepida giornata di metà Aprile nel 2017. Solo pochi giorni prima si era esibito con la solita leggiadria al 10 Twenty Prime di San Marcos in California, a poche miglia da Vista, ove risiedeva, ma un maledetto infarto non gli ha lasciato scampo. Piace ricordarlo con le parole di John McLaughlin, confidando sull’eternità della musica come risposta alla finitezza umana: “Holdsworth era un pioniere della fusion tecnicamente straordinario, con uno stile distintivo ottenuto per merito di un modo sciolto e disinvolto di suonare che l'ha reso inimitabile e indimenticabile”.