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REVIEWSLE RECENSIONI
09/07/2017
Strand Of Oaks
Hard Love
Hard Love, pur con tutte le sue imperfezioni, è attraversato da uno spirito libero che arriva a parlarci al cuore con straordinaria sincerità

Una cosa è certa: Tim Showalter, padre padrone dei Strand Of Oaks, ci ha sempre messo la faccia. Lo ha fatto all’inizio di carriera, quando abbandonò la certezza di un lavoro sicuro, quello di insegnante, per dedicarsi, fra mille dubbi, all’attività di musicista a tempo pieno; lo ha fatto quando, a causa di grave incidente automobilistico, ha guardato la morte dritta negli occhi; e lo ha fatto quando ha riacciuffato per i capelli un matrimonio sull’orlo del collasso a causa dell’infedeltà della moglie. Lo ha fatto, soprattutto, nei suoi dischi, nei quali non ha mai posto filtri alle inquietudini dell’anima, raccontando per filo e per segno tutti i suoi tormenti d’amore, come nel convincente Heal del 2014 Oggi, sono passati tre anni, e per Tim le cose vanno meglio. Se è vero che l’amore resta un sentimento complicato, il dolore però brucia meno, e la sua musica riflette una visione più ottimistica della vita e del futuro. Butta tanta carne sul fuoco, Showalter, spesso senza filtri e senza quella distanza dalla materia che gli consentirebbe, prima o poi, di concepire un capolavoro. Questo è un suo limite, non ci sono dubbi, ma anche il suo pregio più evidente. Perché alla fine dei conti, Hard Love, pur con tutte le sue imperfezioni, è attraversato da uno spirito libero che arriva a parlarci al cuore con straordinaria sincerità. A partire dalla title track che, tra ombre e luci, apre il disco facendo convivere in tre minuti Suicide, melodia pop e chiosa noise, o come nella successiva Radio Kids, coi tastieroni in bella evidenza, a testimoniare una parentela alla lontana coi Cure più solari. Non pensa molto alla coerenza, Showalter, né al quadro d’insieme: così, nessuna sorpresa, se in scaletta possono convivere le chitarre rombanti della sferragliante Everything, gli umori acidi della tristissima Salt Brothers, la pop ballad pianistica di Cry, il piglio punk di Quit It o il rock sguaiato dell’alcolica Rest Of It. Chiude il lotto Taking Acid And Talking To My Brother, che bussa alla porte della percezione di morrisoniana memoria, sigillando un disco spigoloso, denso, sovrabbondante e rumoroso, che trasforma nei suoi punti di forza gli altalenanti umori di Showalter e una sincerità che disarma. Confuso, incoerente, sorprendentemente suggestivo.