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REVIEWSLE RECENSIONI
05/01/2022
Gov’t Mule
Heavy Load Blues
Dopo aver spesso attinto dalle sacre acque del blues, finalmente i Gov’t Mule si tuffano diretti nella sorgente della musica moderna e lo fanno, come sempre, a modo loro, con grande intensità e irrefrenabili jam, tra scrosci di chitarre e folgoranti assoli di hammond, senza tralasciare alcuni momenti acustici più intimi, incarnando tutte le anime di questo genere.

“Il Blues è l’antidoto alla tristezza e depressione”. (Warren Haynes)

 

Era da tempo che Warren Haynes contemplava l’idea di concepire un disco blues, eventualmente anche da solista, ma alla fine è prevalso il piacere di farlo con i suoi “Muli” e alternare cover sorprendenti, per scelta ed esecuzione, a composizioni autografe o in coabitazione con il resto del gruppo, per un risultato scintillante e una perfetta commistione di brani.

Così l’irrefrenabile progetto Gov’t Mule si irrobustisce con un nuovo capitolo entusiasmante e prosegue a stupire per prolificità e integrità. Ne è stata percorsa tanta di strada dall’omonimo favoloso album del 1995 e una delle principali caratteristiche della band è l’incessante attività dal vivo, spesso documentata meravigliosamente in formato audio-video e finalmente ripresa a pieno ritmo dopo l’inusitato stop per la pandemia. Uno degli ultimi concerti ha presentato in scaletta l’intero Heavy Load Blues, dimostrando la nobiltà del lavoro, ottimo per essere riprodotto live da un combo stratosferico che, fra i tanti pregi, non esegue mai una canzone nella stessa maniera e vanta un repertorio vastissimo, che abbraccia, oltre al tipico southern rock, un invidiabile miscuglio di funk, soul, jazz e r&b, sempre suonato con la stessa maestria e fluidità.

"Blues Before Sunrise", una meravigliosa perla di Leroy Carr qui scelta nel famoso arrangiamento di Elmore James, apre magnificamente le danze con un luccichio di slide guitar, oramai vero marchio di fabbrica per l’autore di Soulshine, e l’armonica ficcante dell’ospite Hook Herrera. Curiosamente anche il pluripremiato From the Cradle di Eric Clapton, ventisette anni fa, cominciava con questa traccia per poi fare una carrellata degli storici standard del genere che hanno ispirato la lunga carriera di Slowhand. Potrebbe semplicemente essere un caso, però, data la profonda stima di Haynes nei confronti dell’ex Cream, è possibile intravedere una sorta di tributo a chi fra i primi, a partire da metà sessanta, ha riportato alla popolarità alcuni eroi dimenticati, da Robert Johnson a Skip James e Little Walter.

La bellezza di questa raccolta è, senza dubbio, l’arguzia di accorpare alcune idee fresche, di pregevole fattura, in modo da non risultare mera operazione di revival, ma altresì aggiungere stuzzicanti episodi carichi di verve e attualità.

E proprio tornando a Robert Johnson, nell’acustica "Heavy Load", azzeccata title track dell’opera e appunto scritta di getto per l’occasione, Warren utilizza un’originale Gibson L-1 del 1929 (anche se è stata restaurata, ndr) esattamente come quella che il King of the Delta Blues sta suonando nelle rare foto che lo ritraggono. Lo stile adoperato è molto vicino a quello di un altro monumento della musica del diavolo, l’istrionico Son House, di cui Haynes è un grandissimo fan: pure la conclusiva "Black Horizon" mantiene queste caratteristiche minimali, senza elettrificazione, e l’effetto è straniante, ma indovinato, come ritornare agli inizi del secolo scorso.

Lo spirito tipico dei Gov’t Mule anima creazioni come "Hole in My Soul", lenta, ribollente di fiati, addolorata dall’organo pungente dell’infaticabile Danny Louis, sapientemente accompagnata dal cuore pulsante del gruppo, il batterista Matt Abts e il bassista Jorgen Carlsson. La voce espressiva del leader-in questo caso morbida come non mai- e la sua chitarra illuminano un pezzo intriso di tristezza, molto commovente. "Wake Up Dead", candido sprone a non farsi trascinare via dalla vita, ma a prenderne in mano le redini, nasceva pure essa come slow blues, tuttavia in fase d’incisione muta in un brioso shuffle, per far da contraltare al copioso materiale mid-tempo. Meno riuscite, ma comunque gradevoli sono "Love Is a Mean Old World", caratterizzata dalla sorpresa di sentire Louis cimentarsi anche con una Telecaster, e "If Heartaches Were Nickels", vecchio motivo precedentemente inciso da diversi artisti fra cui Kenny Neal e Joe Bonamassa, di cui Warren Haynes si riappropria, trasformandolo in una cavalcata à la Allman Brothers Band.

Occorre sottolineare come buona parte del repertorio scelto sia stato eseguito dall’ensemble in contemporanea, nella stanza minuta di uno studio in New England stando molto vicino uno all’altro, senza cuffie o auricolari, con piccoli amplificatori e solo alcune minime sovraincisioni successive, ben congegnate insieme al noto produttore John Paterno (Robben Ford, Steve Gadd Band e Michael Landau fra le sue brillanti collaborazioni) e ne è un esempio il rifacimento di "Snatch It Back and Hold It" del mitico armonicista Junior Wells (alla storica registrazione partecipò pure Buddy Guy), che trascina l’ascoltatore in un’altra dimensione. Questa splendida rivisitazione, uno degli highlights dell’LP, diventa pure occasione per un’interpolazione: una torrida jam, dal groove decisamente funky,  "Hold It Back", nasce spontaneamente nel bel mezzo della performance.

Un basso sinuoso e un Hammond B-3 da favola ammantano il classico dei classici di Bobby “Blue” Bland, "Ain't No Love in the Heart of the City", mentre la Gibson vola alta in un assolo malauguratamente sfumato nel finale, e se "(Brother Bill) Last Clean Shirt" e "Feel Like Breaking Up Somebody Home", rispettivamente omaggio a Cactus e Albert King, filano via lisce senza sussulti, è oltremodo sorprendente la rilettura di "Make It Rain", da Real Gone (2004), di Tom Waits. Lo straordinario Marc Ribot e il compianto Larry Taylor dei Canned Heat sono presenti nella canzone originale, una chicca scovata e ottimamente interpretata dai “Muli”. Ne viene fuori una versione torbida, sinistra, dove la chitarra distorta, una vecchia Danelectro del 1950, e le linee di basso si associano a un wurlitzer velenoso, il tutto irrorato da un canto che sembra un cupo lamento.

Se da una parte stupisce vedere i Gov’t Mule pescare dal songbook di Waits, è assolutamente reale la passione di quest’ultimo per Howlin’ Wolf, e ciò lo accomuna a Warren Haynes, il quale considera l’epico bluesman statunitense un vero maestro, uno di quelli che più hanno influito nella sua esistenza, come anche dichiarato recentemente - e senza tanti giri di parole - in un’intervista per Guitar.com.

 

“Ho sempre considerato Howlin’ Wolf il più intenso dei giganti del blues”.

 

E quando "I Asked for Water (She Gave Me Gasoline)" passerà dal vostro stereo non sarete più quelli di prima…Una botta di vita per nove minuti e cinque secondi, con la macchina del tempo direzionata verso "Band of Gypsys" di Jimi Hendrix, per una galoppata colorata da pennellate psichedeliche di estrema potenza, di cui il buon Howlin’ andrebbe fiero. Un artista spesso inserito in scaletta negli show, ma qui ripescato in una riproposizione dura, rauca e arrabbiata, come se gli dei delle sette note avessero concesso alla band un’ultima opportunità di suonare. Ed effettivamente l’intera performance verrà incisa in una sola e unica “take”.

 

In conclusione Heavy Load Blues è consigliatissimo a tutti gli appassionati di blues e ovviamente imperdibile per i fan degli immarcescibili “ragazzi”, cui giova l’opportunità di ricordare una imprescindibile edizione deluxe con un disco di bonus tracks dove svetta un’incendiaria cover di "Have Mercy on the Criminal", forse il pezzo più vicino alla musica del diavolo composto da Elton John. Qui, parafrasando il titolo, nessuna misericordia in una rilettura peccaminosa e strabordante!