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REVIEWSLE RECENSIONI
19/09/2021
Low
Hey What
Stesso produttore, stesso vestito sonori, stesse composizioni affogate in un mare di Synth, ripetizioni e dilatazioni sonore. Ecco a voi "Hey What", il nuovo attesissimo album dei Low.
Il primo brano, “White Horses”, è introdotto da rumori vari e da un tappeto di elettronica che crea immediatamente una sensazione di disturbo. Poi parte il riff portante ed è come una scarica di corrente in un impianto che si inceppa. Le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker, armonizzate e fuse alla perfezione come se fossero una, si stagliano a contrastare quel magma sonoro, come se venissero da un’altra dimensione. Celestiali. Ad un certo punto arriva il ritornello, ripetuto fino all’eccesso, ingrediente principale di un lavoro che per quanto possibile suona molto più essenziale dei precedenti, ed è affogato in un mare di distorsioni e saturazioni, in un crescendo che sembra avere l’unico scopo di mettere a disagio l’ascoltatore.
 
Prendete questo primo pezzo, utilizzatelo come paradigma per tutti gli altri nove e non sarete andati troppo lontani dal farvi un’idea di base di come suoni il tredicesimo disco in studio dei Low. Che poi non credo neppure avrete bisogno delle mie parole, visto che queste canzoni si trovano comodamente in rete da inizio estate, in una sorta di revival del decennio scorso, quando le case discografiche facevano di tutto per proteggere i loro promo e questi immancabilmente saltavano fuori ovunque, frutto dell’attività clandestina di qualche giornalista compiacente.
 
Hey What era molto atteso, fin troppo per un gruppo che è da tempo un’istituzione e che non ha di fatto mai sbagliato un disco: alla lunga finisce che ci si abitua anche ai capolavori e non ci si pensa più. Chi mai si sognerebbe di questionare sui Low? E invece tre anni fa il duo del Minnesota ha fatto uscire Double Negative, che rinnovava un po’ la formula, rimescolava qualche carta e finiva in testa alle classifiche redazionali di mezzo mondo. Venivano da due lavori accessibili e fin troppo nelle loro corde, con quello guadagnarono un’esposizione inaspettata anche per loro ed il tour successivo fu forse tra i più seguiti della loro carriera.
 
Per scrivere il capitolo successivo di questa storia trentennale hanno fatto la mossa forse più scontata: si sono ripetuti. Stesso produttore (BJ Burton, che li aveva seguiti anche per Ones and Sixes) e stesso vestito sonoro, con la grazia sempiterna delle loro composizioni affogata in un mare di Synth, Drone e chi più ne ha più ne metta.
Si lavora sulle ripetizioni, sulle dilatazioni sonore, si ricorre spesso all’Ambient per diluire i paesaggi e gestire le attese, mentre la scrittura viene scarnificata e si arriva fino all’osso, con l’essenzialità di un accordo o di una linea melodica a tenere su tutto.
 
Sparhawk e Parker hanno un’intesa che non ha bisogno di essere tematizzata, un rapporto artistico e affettivo che si riflette automaticamente nelle loro creazioni. Che sono, allo stesso tempo, fresche e senza tempo, sgorgano con naturalezza estrema e sembra che siano sempre state lì. Prendete “Disappearing”, lo struggente invito di “Don’t Walk Away” o più ancora il primo singolo “Days Like These”, che si inserisce di prepotenza nelle pagine del grande songbook americano: ci sono rumori e distorsioni che deturpano consapevolmente, che infliggono ferite, ma la bellezza trova comunque una strada per fluire libera e incontaminata.
 
Il tutto sta dentro un unico fluire, con le canzoni presentate come un’unica suite, ogni brano che sfuma nel successivo senza soluzione di continuità, i testi come un lungo un dialogo a due voci che a tratti sembra prendere le mosse dalla cupezza dei tempi presenti (“When you think you’ve seen everything/You’ll find we’re living in days like these”), a tratti cercare una soddisfazione che sembra essere sempre troppo lontana (“Every time I see that ship go out/It feels like everything’s complete/But somebody somewhere is waiting/Some other ocean at her feet”).
La conclusiva “The Price You Pay”, almeno nella sua prima parte, riannoda invece le fila coi Low del passato, con quello che bene o male è sempre stato il loro tratto distintivo.
 
Hey What sarà senza dubbio amato da tutti coloro che hanno eletto Double Negative a loro disco dell’anno, ma è bene dire che siamo un filino sotto e che l’insieme è nel complesso più ostico: nonostante l’immediatezza di certe soluzioni, la veste sonora è fin troppo determinante e richiederà molteplici ascolti prima di essere metabolizzata a dovere.
In ogni caso, mi pare ormai chiaro che i Low siano una band fuori dal comune, in grado come sono di andare oltre il fisiologico ciclo vitale di ogni act e determinati a mettersi in gioco anche con una carriera così lunga alle spalle.
Rimane solo questo da sperare: che le cose vadano abbastanza bene da poterli vedere a maggio dalle nostre parti. Chi li ha visti anche solo una volta sa bene perché sarà imperdibile.