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REVIEWSLE RECENSIONI
06/03/2018
Lucy Dacus
Historian
Le parole sono importanti, ma anche la musica non scherza. Il mondo di Lucy Dacus e le persone che lo abitano - e di cui la cantautrice americana si fa interprete - è un ambiente speciale in cui voce, testi e rock danno vita a un disco vibrante e completo.

Per certi aspetti Lucy Dacus ricorda i The National, anche solo per quella rara capacità che hanno ben pochi artisti o gruppi al mondo di fare dischi in cui non c’è nemmeno una canzone deludente. Ci sono dialoghi interiori e riflessioni sulle persone chiave della sua vita, ci sono sussurri e grinta, ci sono momenti scarni e passaggi ricchi della dolcezza degli archi o del trionfalismo della sezioni fiati, c’è l’intimità della voce e la sfrontatezza del rock. Giunta al secondo lavoro, uscito per Matador, la songwriter di Richmond, Virginia, riprende il percorso da dove si era interrotto con l’ultima traccia di “No Burden”, il suo artigianale ma fortunato disco di esordio uscito nel 2016 (registrato in meno di una giornata per un progetto scolastico), e vola alto con il nuovo album “Historian”.

E, anche nel caso di Lucy Dacus, è il timbro di voce a colpirci come prima cosa - ovviamente di ben altre coordinate di scala rispetto al baritonale Matt, qui siamo più dalle parti decisamente più femminili di un contralto - capace di insinuarsi a colmare le nostre vulnerabilità e a cementare quelle incertezze per le quali cerchiamo continue risposte nella musica. Le canzoni di “Historian” sono un equilibrato continuum tra parti cantate e momenti strumentali per un insieme che, scorrendo senza sosta, dà vita a un substrato accogliente dentro a una comfort zone che non vorremmo abbandonare mai. Lucy Dacus ha poco più di vent’anni, e tutto ciò non può passare inosservato.

Il tema del dolore e della separazione è ricorrente a partire dalla traccia di inizio, “Night Shift”, il turno di notte complementare al resto del giorno ma che divide le esistenze ed è utile per evitarsi l’un l’altro, quando ci si lascia. Una canzone che entra sottovoce per poi incalzare fino all’esplosione finale, con il vocalizzo di Lucy Dacus indistinguibile da un theremin. Sono ricorrenti, in “Historian” gli amori e le rotture, gli affetti familiari e le figure di riferimento che, purtroppo, vengono a mancare. Non a caso il lavoro dello storico consiste anche nell’assemblare frammenti di vite altrui per ricostruire epoche intere. È Lucy stessa a riconoscere la sua attitudine a catturare le persone e a documentarle in modo da conservare qualcosa per quando saranno assenti, o, come accade nell’americanissima “Pillar of Truth”, quando se ne andranno per sempre. Anche la toccante titletrack, posta in chiusura del disco, parla di questo: due persone, l’una lo storico dell’altra tanto che, quando uno dei due muore, rimane comunque vivo nelle pagine di cose scritte sulla vita trascorsa insieme.

“Historian” è altrettanto sorprendente anche dal punto di vista musicale. A tratti essenziale, com’è tipico di chi mette gli accenti sui propri contenuti, altrove graffiante e con virate impetuose in cui una base consolidata di chitarra e sezione ritmica si avvantaggia di timbriche meno tradizionali per il rock, la componente strumentale - con o senza voce sopra - è trascinante e, questo genere di attenzioni, non è scontato trovarle in chi fa del songwriting. Prendete “Nonbeliever”, un brano tormentoso e dolce nello stesso tempo già di per sé, ulteriormente impreziosito da una coda priva di cantato con un climax con quel ritmo che piace tanto ai Coldplay e un inaspettato finale in maggiore. O la trovata barocca di “The Shell” di inserire una parte strumentale di accordi che si aprono sopra al bordone di basso-synth che resta immobile sulla stessa nota a tenere in piedi uno statico solo di chitarra, e per capire cosa intendo ascoltate “Afterglow” dei Genesis.

In “Body to Flame” addirittura suona un’orchestra da camera e, con quell’incedere terzinato, l’ascoltatore può muoversi lungo uno stato di serenità almeno prima che subentri un arrangiamento che non stonerebbe in “Ok Computer”. Il ritmo resta immutato ma, questa volta, in chiave blues con “Timefighter”, una traccia tanto minimale all’inizio quanto violenta nel finale che costituisce la prova che, con i cambiamenti di umore, Lucy Dacus e la band che l’accompagna in questo disco ci hanno preso gusto.

La forza e la bellezza del nuovo lavoro di Lucy Dacus sono uniche. Album consigliatissimo, “Historian” si conferma il primo passaggio della naturale evoluzione di un’artista dotata di un talento singolare.