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REVIEWSLE RECENSIONI
09/07/2020
Neil Young
Homegrown
Ascoltare “Homegrown” è come viaggiare nel tempo per 35 minuti. Un disco di placido cantautorato Country Rock, fondamentale per capire meglio la carriera di Neil Young

Volendo fare un paradosso, non è lontano dal vero affermare che Neil Young, nel corso della sua ultracinquantennale carriera, abbia lasciato negli archivi più album di quanti ne abbia effettivamente pubblicati. Basta semplicemente andare a farsi un giro sulla sua pagina su Wikipedia per rendersi conto di come esista tutta una discografia parallela del cantautore di Winnipeg, soprattutto relativa alla metà degli anni Settanta. Un periodo molto complicato per Young, durante il quale, tra lutti (le morti del chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten e del roadie Bruce Berry), storie d’amore burrascose (come quella con l’attrice Carrie Snodgress, a cui Young aveva dedicato “A Man Needs a Maid” dopo averla vista recitare in Diario di una casalinga inquieta), la nascita di un figlio con problemi neurologici e la difficoltà a gestire il successo conseguito prima con Déjà Vu dei CSN&Y e poi con Harvest da solista, ha letteralmente cestinato decine di album fatti e finiti, con tanto di copertina già realizzata, scaletta redatta e – nel caso di Chrome Dreams, si dice – copie già stampate.

Narra la leggenda che nella primavera del 1975 Neil Young avesse in programma di pubblicare Homegrown, un disco che aveva registrato a cavallo tra il 1974 e il 1975 tra i Quadraphonic Studios di Nashville e il mitico Broken Arrow Ranch in California, ma che abbia poi preferito far uscire Tonight’s the Night (che aveva nel cassetto già da un paio d’anni) dopo una seduta d’ascolto dei due album fatta per un ristretto circolo di amici.

Come capitato in occasioni simili – vedi anche Hitchhiker, pubblicato tre anni fa –, molte delle canzoni di Homegrown sono poi riapparse nella discografia di Neil Young: “Star of Bethlehem” e la title track sono finite su American Stars ‘n Bars; “Love Is a Rose” è apparsa su Decade; “Little Wing” è stata utilizzata in apertura di Hawks & Doves; mentre “White Line” è rimasta nel cassetto per 15 anni, fino a quando, in una versione turboelettrica, non è stata registrata per Ragged Glory assieme ai Crazy Horse.

Come ha notato più di qualcuno, riciclare le canzoni non è mai stato un problema per Neil Young, dal momento che, se si vanno a spulciare le relative note di copertina, album come American Stars ‘n Bars, Comes a Time, Hawks & Doves e Freedom (ma la lista potrebbe continuare) sono praticamente dei collage realizzati assemblando canzoni ripescate da precedenti progetti naufragati. Ma, forse, lo smantellamento di Homegrown, non va imputato tanto alla qualità complessiva del disco – che, va detto subito, a scanso di equivoci, è altissima –, quanto piuttosto al fatto che la fine della storia d’amore con Carrie Snodgress, di cui il disco in buona sostanza è una cronaca in diretta, fosse una ferita ancora troppo fresca per Neil. Molto più opportuno, quindi, pubblicare Tonight’s the Night: lì, almeno, l’elaborazione del lutto per la scomparsa degli amici Danny Whitten e Bruce Berry era quantomeno in una fase più avanzata. Infatti, ascoltando l’opener “Separate Ways”, una straziante breakup song nella quale Young non fa nulla per nascondere il proprio cuore spezzato, non è difficile immaginare come mai Homegrown sia stato pubblicato solo ora, nel 2020, a 45 anni abbondanti dalla sua realizzazione.

È chiaro che – dal cinico punto di vista dell’ascoltatore – aver aspettato così tanto è un peccato, perché il Neil Young di Homegrown è un Neil Young in splendida forma, musicalmente più leggero di quello di Tonight’s the Night e On the Beach (e ci vuole poco!), ma con una visione più coerente e coesa rispetto a quella di Harvest e Comes a Time, due dischi nei quali – al netto del fatto che sono dei capolavori – gli stili tendono un po’ ad affastellarsi. Qui, invece, la visione è molto più rigorosa e, escluso un pezzo strano e straniante come lo spoken-word “Florida”, l’album utilizza il linguaggio di un placido Country Rock, a tratti più riflessivo, vedi “Mexico” o “Kansas”, nelle quali Neil Young si accompagna da solo al pianoforte o alla chitarra, oppure più rilassato, come “Try”, accompagnato dai fedeli scudieri Ben Keith alla pedal steel e Tim Drummond al basso (ma c’è anche Levon Helm alla batteria), nella quale, in nuce, si intravede già mezza discografia dei Pavement. Ci sono poi anche degli inserti più Folk, come “Love Is a Rose” e “White Line” (con Robbie Robertson alla chitarra), oppure Rock Blues, come “We Don’t Smoke It No More” e “Vacancy” , dove Neil imbraccia la chitarra elettrica con il suo stile scarno ed essenziale.

Il disco – dopo tanta sofferenza – si chiude su una nota di speranza con “Little Wing” e “Star of Bethlem”. È stato un viaggio lungo 45 anni, ma alla fine Homegrown è arrivato fino a noi. Finito l’ascolto, la sensazione è un po’ strana, perché per 35 minuti sembra di aver letteralmente viaggiato nel tempo. Ma ne è valsa la pena, perché, nonostante diverse canzoni risultino familiari, avendole già ascoltate nella loro seconda dimora, sentite finalmente nel contesto originario, il loro senso e il loro valore ne viene come amplificato. Per cui Homegrown non è solo una curiosità per appassionati retromaniaci o un’occasione per i completisti incalliti, ma piuttosto un tassello prezioso ed essenziale per capire ancora più a fondo la carriera e il catalogo di Neil Young.


TAGS: classic rock | homegrown | JacopoBozzer | loudd | neilyoung | recensione | review | rock