Che fine ha fatto l’Indie Folk a dimensione mainstream, quello tutto banjo, mandolini, voglia di vivere e camicie di flanella (no, non sono state una prerogativa del Grunge)?
C’è stato un tempo in cui i Mumford and Sons sembravano i nuovi Beatles e mio malgrado c’ero cascato anch’io: ricordo un concerto all’Alcatraz ai tempi di Babel in cui letteralmente non sono riuscito a sentire nulla causa ragazzine piangenti e urlanti come allo Shea Stadium nel 1966. Non faceva schifo, quel fenomeno: gli stessi Mumford dei primi due dischi possedevano una freschezza ed un candore che li rendeva interessanti (più per i teenager che per gli ascoltatori più stagionati ma non posso negare che mi piacquero, seppur per un breve periodo), il primo dei Lumineers non era affatto male e contemporaneamente c’erano band di molta maggiore sostanza come Avett Brothers, Decemberists e Band of Horses, solo per citare le più note, per non parlare poi dell’impazzimento collettivo che si verificò con l’uscita del primo disco di Bon Iver.
Esistono ancora tutte, è evidente, ma il vento del successo popolare è calato, oggi fanno musica per i loro fan e tanto basta, i trend del resto sono mode e le mode sono effimere, non lo scopriamo certo oggi.
I Mt. Joy, da un certo punto di vista, dovrebbero rappresentare tutto ciò che, in questo particolare sottogenere, ha sempre avuto il potere di irritarmi a morte: facce da bravi ragazzi, sempre sorridenti, le canzoni dritte e festaiole col banjo e le chitarre acustiche sparate a mille, le melodie facili e compiacenti, una sensazione complessiva di innocua e superficiale dimensione Pop.
E invece, incredibile ma vero, sono riusciti a conquistarmi. Ho guardato un bel po’ della loro residency al famoso Salt Shed di Chicago e mi hanno stupito per qualità della performance e livello del repertorio, oltre al fatto che la loro attitudine positiva è funzionale ad un rapporto sempre molto stretto col pubblico, ingrediente necessario per giudicare davvero riuscito un concerto.
E così, se ad un ascolto distratto potrebbero essere assimilati a dei parenti prossimi degli Strumbellas, approfondendo il discorso si capisce che non è così e che, se decidiamo di accettare la leggerezza complessiva della proposta, scopriremo inaspettatamente che ne vale la pena.
Hope We Have Fun è il quarto disco della band di Philadelphia (ma di stanza a Los Angeles) ed è il frutto di un lavoro di tre anni, coincidente col periodo di maggior ascesa del quartetto, che si è trovato a riempire posti come il Madison Square Garden o il Red Rocks Amphiteatre.
Matt Quinn e compagni hanno vissuto il graduale successo (frutto di un’etica del lavoro indefessa e di live show di alto livello che funzionano come una festa collettiva) col sorriso sulle labbra, calmi e rilassati, e hanno scritto canzoni sulle sfide della quotidianità e sulla bellezza dell’esistenza, mantenendo intatto il loro marchio di fabbrica ma allo stesso tempo alzando l’asticella e diversificando a sufficienza i contenuti, così che sia impossibile bollarli di eccessiva ripetitività.
Musicisti bravissimi e affiatati, esperti nella gestione dei crescendo (l’iniziale “More More More” ne è un esempio notevole), inanellano tredici brani per quaranta minuti di durata, passando dal groove scanzonato e irresistibile di “Coyote” e “Pink Lady” (quest’ultima con un gran lavoro al piano elettrico da parte di Jackie Miclau, autrice peraltro di un’ottima performance in tutto il disco), alle ballate americanissime, in pieno stile Country Folk (“God Loves Weirdos” e “Wild and Rotten” sono due pezzi magnifici, nonostante insistano su stilemi ultra collaudati), svisate in bilico tra Rock solare e Power Pop (“Groove in Gotham” e la brevissima “Scared I’m Gonna Fuck You Up” faranno sfracelli dal vivo), ed episodi un po’ più sperimentali, come la lenta cantilena ipnotica di “In the Middle” ed una “She Wants to Go Dancing” che profuma di Funk e che è stata la prima ad essere pubblicata, ancora lo scorso autunno.
Vero che qua e là ci sono cose abbastanza trascurabili come “Highway Queen”, che pesca tutti i luoghi comuni più triti del genere, e una “You Are Who She Loves” che proprio non riesce a lasciare traccia. Vero altrettanto, però, che basterebbe la sola “Lucy”, un episodio che guarda negli occhi senza paura la più grande tradizione del songwriting a stelle e strisce, o la malinconia agrodolce della conclusiva title track, per considerare più che riuscita questa prova discografica.
Peccato che siano un fenomeno esclusivamente americano, almeno per ora. L’auspicio è che Hope We Have Fun possa risultare “divertente” anche per gli ascoltatori europei, così da poterli vedere in azione anche dalle nostre parti. Anche l’Indie Folk ha fatto cose buone, tutto sommato.