A guardare la traiettoria dei Thrice verrebbe quasi da dire che poche band contemporanee hanno incarnato con la stessa naturalezza l’idea di evoluzione. Partiti con l’emo punk di Identity Crisis (2000) e The Illusion of Safety (2002), i quattro – il cantante e chitarrista Dustin Kensrue, il chitarrista Teppei Teranishi, il bassista Eddie Breckenridge e il batterista Riley Breckenridge – prima hanno scritto uno dei dischi simbolo del post-hardcore con The Artist in the Ambulance (2003), poi si sono reinventati tramite le atmosfere ombrose e spirituali di Vheissu (2005), infine hanno distrutto ogni certezza con la tetralogia di EP The Alchemy Index (2007-08), un progetto così ambizioso da risultare ancora oggi un unicum nella scena rock alternativa.
Eppure, nonostante una carriera di questo calibro, i Thrice rimangono una band paradossalmente sottovalutata: riverita dagli addetti ai lavori, amata visceralmente dal loro pubblico, ma di rado citata accanto ai grandi innovatori del rock degli ultimi vent’anni. Forse perché il loro percorso non ha mai cercato l’attenzione, preferendo la profondità all’effetto; o forse perché la loro discografia non è costruita su immediati classici generazionali, quanto su un lavoro costante, coerente e in continua metamorfosi.
Il nuovo Horizons/West, dodicesimo album in studio della formazione dell’Orange County, e seguito diretto di Horizons/East (2021), arriva come una sorta di risposta a tutto ciò: non un semplice capitolo aggiuntivo, ma un’opera che sembra raccogliere e riorganizzare gli elementi fondamentali dell’identità dei Thrice, restituendoli in una forma sorprendentemente coesa. Il risultato è il loro miglior disco dai tempi di Vheissu, non solo per qualità complessiva del materiale, ma per la capacità di riassumere e metabolizzare la loro storia sonora con una lucidità che mancava da anni. Meglio persino di The Alchemy Index, che pure ambivano a catturare la totalità della band attraverso l’allegoria degli elementi.
Se Horizons/East rappresentava un atto di apertura, un tentativo di trovare la luce nel caos contemporaneo, Horizons/West sceglie di gettare lo sguardo nell’abisso. Ma l’album non vuole essere il lato oscuro di un dittico, quanto piuttosto un mondo a sé stante, dal momento che l’atmosfera generale è sensibilmente più cupa, più tesa e più tormentata del suo predecessore.
L’incipit è emblematico in tal senso. “Blackout” prepara un terreno sonoro che smentisce qualunque aspettativa: il pezzo è un crescendo lento ma carico di elettricità, pronto a esplodere nel finale. Le chitarre pulite, le percussioni stratificate, gli inserti elettronici cupi creano un impasto quasi cinematografico; un richiamo, questo, al minimalismo di Beggars (2009), ma intriso di un’intensità che mancava da tempo.
Poi arriva “Gnash”, e qui siamo al cospetto dei Thrice più feroci: il brano è aggressivo, nervoso, sporco, animato da una rabbia controllata che riporta alla mente le sezioni più incendiarie della sezione Fire di The Alchemy Index. Una canzone così diretta e abrasiva, così chiaramente figlia dei Thrice del periodo 2007-08 non si sentiva da anni. In molti l’hanno descritta come un ritorno alle origini: più che un ritorno, a nostro avviso è un recupero, un prendere quel linguaggio e riproporlo quasi vent’anni dopo con una sensibilità mutata.
“Albatross”, terzo brano del disco, complica di nuovo le cose: è un brano dal passo più disteso, introdotto da un ottimo giro di basso dalle tinte grunge, con un ritornello che ricorda quanto Dustin Kensrue sia diventato negli anni un interprete unico, capace di piegare la sua voce ruvida in fraseggi lirici estremamente intensi. È uno dei momenti in cui emergono più forti le qualità pop dei Thrice, non nel senso radiofonico, ma nella capacità di costruire melodie che scavano in profondità senza per forza di cose essere banali.
Come accennato, centrale in Horizons/West è l’idea di contrasto, il gioco degli opposti: elettronica vs. coralità, lentezza vs. esplosione, meditazione vs. impeto. Infatti, se “Undertow” sviluppa una pulsazione elettronica torbida, quasi trip-hop, che sembra guardare ai Radiohead più inquieti, per converso “Holding On” comincia come un brano introspettivo per aprirsi improvvisamente a un riff granitico, con un salto dinamico che ricorda la tensione dei vecchi Thrice ma filtrata da una consapevolezza nuova.
La seconda metà dell’album si apre con “Dusk”, un interludio di 90 secondi che congela il tempo. È un paesaggio elettronico algido, sospeso, che sembra voler evocare non tanto un cambiamento di scena quanto un’improvvisa perdita di orientamento. È una scelta che spezza il ritmo del disco, ma ne amplifica l’immersività dell’esperienza. Segue “The Dark Glow”, senza dubbio uno dei brani più rappresentativi di Horizons/West, un continuo alternarsi tra pieni e vuoti, tra confessione intima e esplosione sonora. Qui la scrittura dei Thrice raggiunge uno dei suoi vertici: tutto appare calibrato ma mai artificioso, come se la band avesse recuperato la naturalezza compositiva dei tempi d’oro.
Da qui in poi Horizons/West mantiene un’asticella qualitativa assai elevata. “Crooked Shadows” riporta l’aggressività in primo piano, con un Kensrue che, pur senza tornare ai registri vocali di vent’anni fa, ritrova una veemenza impressionante. “Distant Suns”, invece, è l’opposto: eterea, atmosferica e malinconica, è talmente tanto dotata di senso melodico da essere una delle vette assolute del disco.
Ma il vero cuore dell’album risiede nel dittico finale, composto da “Vesper Light” e “Unitive/West”, un segmento così riuscito da rendere questa sezione di Horizons/West quasi una sintesi sonora dell’intera carriera dei Thrice. “Vesper Light” alterna momenti post-rock a riff che esplodono all’improvviso, mentre l’uso della voce di Kensrue e la progressione lenta del brano verso il suo climax sono un recupero delle atmosfere di Vheissu e Beggars. “Unitive/West”, infine, è sospesa tra minimalismo ambient e un pathos quasi sacro, riecheggiando un brano come “Beyond the Pines” ma con una consapevolezza nuova. È un finale che non cerca tanto l’esplosione, i fuochi d’artificio, ma congeda l’ascoltatore con una dissolvenza.
A differenza di alcuni lavori post-reunion, da To Be Everywhere Is to Be Nowhere (2016) in poi, Horizons/West non si limita a rientrare nella categoria “un altro buon disco dei Thrice”, ma è un qualcosa di diverso: è uno sguardo verso il passato per progettare il futuro, un distillato dell’essenza stessa della band dell’Orange County. Qui non c’è l’ambizione concettuale (talvolta eccessiva) di lavori come The Alchemy Index, né la linearità di Major/Minor (2011) o Palms (2018). Horizons/West è un disco libero: libero di essere heavy quando serve, elettronico quando serve, melodico quando serve. Insomma, un lavoro dove i Thrice, da veri veterani, sembrano dire: questi siamo noi, ora che sappiamo cosa siamo sempre stati.
Probabilmente galvanizzati dalla recente esperienza di registrazione di The Artist in the Ambulance – Revisited vent’anni dopo l’originale, i Thrice si sono riconnessi con le fondamenta della loro identità, riposizionandosi (finalmente) come una delle band più profonde, coerenti e visionarie della scena rock tout court. A ventisei anni dall’esordio, la band dell’Orange County non solo ha ancora molto da dire, ma ha appena pubblicato il suo lavoro migliore da vent’anni a questa parte, una sintesi perfetta del suo percorso e un nuovo punto di riferimento per ciò che potrà diventare. E se questa non è grandezza, è difficile dire che cos’altro lo sia.

