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REVIEWSLE RECENSIONI
16/10/2020
Holy Motors
Horse
Dicono di aver suonato per la prima volta “I Will Try”, uno dei loro primi singoli, prima di una proiezione di un film di Jim Jarmusch. E considerata la loro passione per le colonne sonore di Morricone e il fatto che hanno preso il loro nome dalla celebre opera di Leos Carax, potrebbe anche avere ragione chi in passato ha fatto notare agli Holy Motors di essere una band più per amanti del cinema che dei concerti.

La band estone arriva alla seconda prova discografica, dopo l’esordio “Slow Sundown”, uscito nel febbraio del 2018, che ha fruttato loro la partecipazione ad alcuni festival di peso (leggi SXSW e Pitchfork) e un endorsement importante come quello di Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, che li ha presi sotto la sua ala protettrice, producendo loro alcuni brani.    

Strani incroci di destini, nella loro storia: il gruppo nasce nel 2013 da membri giovanissimi, ancora studenti liceali, di conseguenza nati qualche anno dopo le vicissitudini politiche che hanno portato alla disgregazione del blocco sovietico e alla riconquistata indipendenza del loro paese. Non è così assurdo che la loro passione per il Western e per l’immaginario americano derivi proprio da queste contingenze, da un paese che aveva finalmente ricominciato ad aprirsi al mondo occidentale ed era di conseguenza risultato più permeabile anche al Soft Power della superpotenza uscita vincitrice della Guerra Fredda.

E quindi eccola qui, questa strana anomalia culturale: un gruppo alla periferia dell’Europa che pure guarda a tutto l’universo a stelle e strisce fatto di Cowboy, autostrade sterminate, paesaggi solitari e tanta, tanta musica Country.

Neanche farlo apposta, il nuovo disco s’intitola “Horse”, ha in copertina una versione cavallerizza della cantante Ellian Tulve e come opener e primo singolo un brano che si chiama “Country Church”, che vive di chitarre riverberate, linee vocali sognanti e ritornello diritto, impossibile da non cantare al primo ascolto. E che, neanche farlo apposta, è stata scritta durante un lungo e alquanto stereotipato Road Trip dal Tennessee al Texas.

Li hanno paragonati a Mazzy Star e Slowdive ed anche se probabilmente c’entrano più coi primi che coi secondi, la loro musica è costruita maggiormente su coordinate Roots e più tipicamente Alt Country, quasi fossero una versione più ipnotica e notturna dei Wilco.

Merito senza dubbio del chitarrista e songwriter Lauri Raus, bravissimo a ricamare melodie crepuscolari e a tratti psichedeliche, unendole tuttavia ad un approccio sonoro smaccatamente easy listening. Dal canto suo, Tulve è molto brava e pur non essendo in possesso di una vocalità originale (generalizzando, mi pare stia a metà strada tra Victoria Legrand e Hannah Reid) è in grado di dare ai brani quel fascino che serve affinché non vengano dimenticati in fretta nel mare magnum delle uscite.

Nessun tangibile cambiamento rispetto al disco precedente, semmai una maggiore coscienza dei propri mezzi. I 32 minuti di “Horse” scorrono via piacevoli e fatta eccezione per la conclusiva strumentale “Life Valley (So Many Miles Away)”, non ideale colonna sonora per un viaggio in macchina soporifero, il resto dei brani è decisamente valido: dalla classicissima “Midnight Cowboy”, che cita il Badalamenti di “Twin Peaks” ma si scioglie presto in uno spensierato duetto tra Tulve e Raus, la passeggiata notturna di “Endless Night”, gli echi di Anna Calvi in “Road Stars”, una “Come On, Slowly” che suona come un loro personale omaggio ai Beach House; e infine “Matador”, che col suo andamento languido ed ammaliante rappresenta la sintesi perfetta della particolare ricetta degli Holy Motors.

Senza farci troppo prendere dall’entusiasmo, si può affermare che “Horse” sia uno di quei dischi piacevoli e sinceri che potrebbe anche riuscire a superare la prova del tempo ed allietarci con le sue canzoni anche tra qualche anno. Non è affatto escluso che questi giovani estoni facciano parlare parecchio di loro, nel prossimo futuro.


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