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REVIEWSLE RECENSIONI
30/06/2023
Keaton Henson
House Party
"House Party" è un disco che, pur avendo sempre a che fare con situazioni di dolore, disagio e solitudine, abbandona per una volta le ballate oscure in favore di composizioni che assomigliano molto di più a canzoni Pop. Keaton Henson realizza con la solita pazzesca bravura un Rock alternativo rivestito di Pop che si conferma nuovamente dannatamente efficace.

L’inizio, con “I’m not There”, è quantomeno spiazzante: un rock da manuale, pieno di chitarre e batteria, dal gusto anni ’90, un inno generazionale che ha però anche il sentore della confessione malinconica. Un Keaton Henson in versione full band lo avevamo già sentito dalle parti di Kindly Now (2016) ma essendo Monument il termine di paragone più recente è comunque inevitabile rimanere sorpresi.

La copertina, del resto, aveva già dato qualche segnale in tal senso: sfondo giallo pastello, un ritratto dell’autore in completo rosa e camicia bianca, accomodato su una sedia di colore verde, con una replica della sua testa appoggiata in grembo. Lo ha realizzato Tristan Pigott ed è la prima volta che non è lo stesso Henson ad occuparsi dell’artwork. È un’immagine calda e per certi versi rassicurante, che in parte lo accomuna a Father John Misty ma che in fin dei conti ha il compito di rappresentare graficamente una svolta musicale che ha molti punti in comune con quella intrapresa alcuni anni fa da Josh T. Pearson col suo The Straight Hits.

Ai tempi del suo primo disco, è stato ricordato di recente, aveva descritto così ad un amico il successo che stava ottenendo: “È come se tu fossi seduto in Waterloo Station e all’improvviso tutti i presenti si girassero a fissarti”. Anni dopo, con l’ansia che è montata fino al punto da rendergli parecchio difficile esibirsi dal vivo, ha scelto la strada della finzione letteraria, costruendosi un alter ego e affidando a lui molte delle sue paure.

 

House Party, titolo quantomai programmatico, gioca come Pessoa sul modello degli eteronomi, e mette in scena le canzoni di un artista Pop della Los Angeles glamour, affamato di successo e perennemente frustrato dal fatto di non riuscire ad ottenerne abbastanza. Sono storie di solitudine, di fame di rapporti, di desideri non realizzati e il fatto di essersi creato questa distanza prospettica fa sì che possa essere più libero nel raccontare il proprio vissuto.

Il risultato è un disco che, pur avendo sempre a che fare con situazioni di dolore e disagio, abbandona per una volta le ballate oscure in favore di composizioni che assomigliano molto di più a canzoni Pop, anche se ovviamente vestite e cantate alla sua maniera. Vero che c’è più luce, vero che ci sono più suoni, ma se questa è la sua svolta Pop, è altrettanto vero che questa svolta l’ha eseguita rispettando in pieno la propria identità originaria.

Da questo punto di vista, la già citata “I’m Not There”, nonostante abbia un testo che può essere letto come una dichiarazione d’intenti, è anche un po’ ingannevole, perché poi il resto dei brani si muove su un territorio ambivalente ben rappresentato dal ritornello agrodolce di “The Meeting Place” o da “Hooray”, anche questa giocata su un meraviglioso lavoro di chiaroscuro.

 

Di base è un Rock alternativo rivestito di Pop, realizzato con la solita pazzesca bravura di un artista che, se credesse un po’ più in se stesso e fosse un po’ più bravo a vendersi, oggi starebbe nell’Olimpo dei grandi.

“Two Bad Teeth”, intensa, drammatica e allo stesso tempo spensierata, è semplicemente una delle più belle canzoni dell’anno; “Hide Those Feelings”, che chiude il disco con un ritornello liberatorio, tanto già sentito quanto splendido, è un’ulteriore prova del livello altissimo di questo lavoro.

E poi ci sono anche quei momenti in cui l’alter ego rimane leggermente in ombra ed emerge il Keaton Henson che conosciamo da sempre: “Late of You”, acustica con leggere orchestrazioni, “The Mine”, struggente e con un finale di fiati impazziti in sottofondo, sembrano rappresentare in pieno quello che è stato uno degli obiettivi dichiarati di questo lavoro: “Volevo che il disco suonasse incredibilmente solitario, come se fosse proprio il suono di una persona sola. Penso sempre al suono, a quei momenti in cui c’è così tanta tranquillità da poter sentire il rumore che fa la tua sigaretta mentre brucia”.

 

Un disco che parla di solitudine ma che, paradossalmente, è il suo più collettivo di sempre, per come ha saputo coinvolgere tutta una serie di amici e collaboratori.

Dopo Monument, che ne elevava ai massimi livelli le doti di cantautore, House Party segna l’ingresso di Keaton Henson nell’ambito della scrittura mainstream, recuperando un tipo di rock che sì, a tratti può sembrare datato, ma che dimostra di essere ancora dannatamente efficace.

Speriamo che vinca timidezza e ansia e decida di partire in tour.