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REVIEWSLE RECENSIONI
30/04/2024
Accept
Humanoid
Nell’anno dei ritorni discografici di molti grandi giganti del classic metal, dopo Saxon e Judas Priest, tocca ora alla band tedesca più nota e famosa nel genere. “Humanoid” è la loro uscita numero diciassette, sarà all’altezza della storia dei teutonici Accept e degna dei suoi compari albionici?

Se dovessimo raccontare ai profani la storia della leggenda del metal germanica chiamata Accept, potremmo semplificare così: dopo qualche scaramuccia adolescenziale, si può datare la vera nascita della band nel 1976. In circa dieci anni e sette album, il quintetto riesce a fondere hard rock ed heavy metal, tra cori marziali e velocità forsennate ma sempre quadrate, precise e pulite, grazie al chitarrismo creativo e neoclassico di Wolf Hoffmann e alla voce di cartavetrata del roccioso Udo Dirkschneider.

Nel 1987 il cantante se ne va per dissidi interni, verso una gloriosa carriera solista, mentre i superstiti decidono di riprovarci con un cantante dotato di un timbro più pulito e un disco che però, non lascia traccia. La band si mette in pausa forzata fino al 1992, anno in cui Udo decide di tornare nel gruppo, per altri due dischi ben accolti, fino al 1997. Altri litigi e fine medesima delle precedenti.

Nel 2005 la formazione storica ritorna per un giro di danze europeo, l’ultimo e indimenticabile respiro di una creatura epica e molto amata. Quattro anni dopo, Hoffmann decide di rimettere in modo la macchina metallica, consapevole di dover trovare la voce giusta per non far rimpiangere il mitico Udo. Sorprendentemente, la ricerca ha esito positivo, grazie al talento dell’americano Mark Tornillo (classe 1963), una sorta di carismatico incrocio tra Brian Johnson e Dirkschneider, che rimette in pista la band. Da quel momento nasce una seconda vita per gli Accept, oggi arrivati al sesto disco con il “nuovo” cantante, e con il solo Hoffmann rimasto come membro fondatore.

 

In pura sostanza, oggi ci sono due entità che portano in giro per il mondo l’eredità sonora deli Accept: la band con il nome originale, capitanata dal chitarrista Wolf Hoffmann, Tornillo e un manipolo di nuovi acquisti, e il sempre inossidabile Udo, che ogni tanto torna a cantare il suo vecchio materiale (spesso insieme a qualche ex membro degli Accept), ripetendo periodicamente che “questa volta sarà l’ultima”.

Lasciando da parte eventuali dispute su chi dovrebbe detenere quel famigerato e pregiato nome, va ricordato che questi Accept si sono meritati una seconda possibilità e hanno riconquistato il loro pubblico, a botte di album più che validi e concerti infuocati; quindi, accogliamo questo puntuale Humanoid come un ritorno atteso ma anche consueto e senza la pretesa di sentire un sound rivoluzionato, oppure contaminazioni di altri generi.

Qui si va sul sicuro a partire dalla copertina e della tematica fantascientifica che riporta in auge tematiche già trattate in Metal Heart del 1985. In questo caso si parla di umanità contrapposta alla sempre più invadente intelligenza artificiale, e ci si chiede quali siano i limiti da non oltrepassare, ma non si tratta di un complesso concept album; infatti, altre canzoni parlano di argomenti più classici del metal, come in “Unbreakable”, una sorta di inno e ringraziamento, dedicato ai fedeli fan del gruppo.

 

Arrivando sereni alla musica, squadra che vince non si cambia: vediamo sempre Andy Sneap alla chirurgica produzione, e fa specie pensare che ci sia la stessa mano dietro anche alle nuove uscite di Judas Priest e Saxon. Con tutta la buona volontà, non si può negare una certa omologazione del suono, partendo già dall’influenza evidente che la truppa di Rob Halford ha sui suoi colleghi tedeschi, che oscillano tra asperità metalliche e piacevolezze anthemiche figlie degli Ac/Dc più settantiani, come nelle esplicite “Man Up” e “Straight Up Jack”. Il metal più puro e splendente fa capolino nell’iniziale “Diving Into Sin”, tra sapori mediorientali e qualche citazione di musica classica, che è un po' il marchio di fabbrica dell’ascia sempre ispirata di Hoffmann, ora coadiuvato da un chitarrista di grande esperienza come Uwe Lulis (ex Grave Digger).

Il meglio sembra arrivare nella prima metà del disco, grazie alla visionaria title track, con un ritornello meno banale della media e che ben trasmette l’atmosfera di alienazione del titolo. Ma anche la sfaccettata “Frankenstein” regala brividi ed emozioni ben dosate, ponendosi al di sopra delle altre tracce, mai pessime ma nemmeno memorabili. La band si sente ispirata e prova anche la carta della ballad malinconica, cullandoci nelle atmosfere senza tempo di “Ravages Of Time”, dove Tornillo si fa più pulito e tormentato (con ottimi risultati), e Hoffmann torna sugli scudi con il suo solismo lirico e non lontano dal grande Michael Schenker.

 

Humanoid è un compito in classe ben eseguito e senza sorprese, ma soprattutto povero di sudore e intensità, probabilmente per demerito di una produzione troppo levigata, soprattutto nei cori che sembrano quasi “finti”. Suona bene certo, fin troppo, qualche sbavatura in più sarebbe stata gradita. Ma i fan saranno felici lo stesso. Alla fine, la lotta tra i giganti del metal si conclude più o meno alla pari, ma se dovessi scegliere, i Judas Priest vincerebbero di un’incollatura.