Cerca

logo
Banner 2
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
25/11/2025
Live Report
I Cani, 24/11/2025, Alcatraz, Milano
Miglior concerto de I Cani per distacco. La band romana è tornata per l'unico motivo per cui dovrebbe essere consentito tornare: vivere il presente e avere ancora qualcosa di interessante da dire. Finchè ci sono, godiamoceli tutti.

L'Alcatraz è strapieno quando alle 21.40 i Cani attaccano “Io”, il brano che apre il nuovo disco. Il palco è buio, fatta eccezione per una serie di fari che spara verso l'alto fasci sottili di luci bianche. La confessione minimale, piano e chitarra arpeggiata, riassume il senso di questi anni di assenza ed è scandita in coro dai tremila presenti come fossero una voce unica.

Poi parte “Buco nero” e la folla ondeggia, ancora una volta accompagna Niccolò Contessa nelle istantanee esemplari di personaggi costretti a confrontarsi con la dimensione più autentica e inquietante dell'esistenza. L'elettronica è scura, la batteria spinge, l'impressione è che si tratti di uno dei loro pezzi migliori.

“Colpo di tosse” rischiara un po' l'atmosfera, la chitarra ritmata e le atmosfere più solari, il concerto si avvia a diventare una grande festa. E ancora una volta il pubblico canta, forte e chiaro.

Il senso del concerto de I Cani, il secondo dei tre a Milano, l'ennesimo di un tour che, iniziato da quasi un mese, è da tempo un'unica grande infilata di sold out, sta tutto qui.

 

Non hanno fatto nessuna reunion, non c'è stato nessun come back all'insegna della nostalgia, per suscitare il sentimento e lo sguardo retrospettivo di quei ventenni che li ascoltavano allora e che dovrebbero al momento trovarsi in una fase della vita in cui voltarsi indietro dovrebbe essere punito per legge.

No, Niccolò Contessa è troppo intelligente per cedere ad una retromania divenuta ormai molto più che stucchevole.

I Cani hanno ripreso il loro percorso, interrotto per otto anni per motivi che non sono obbligati a spiegarci, e adesso hanno fatto un nuovo disco. Un disco al passo coi tempi, che riaggiorna la loro formula creativa al contesto odierno e non si sente forzato a replicare una ricetta che, del resto, si erano già affrettati ad abbandonare con Aurora.

Post Mortem viene suonato per intero e si prende una bella fetta di una scaletta corposa (24 brani per quasi due ore di musica) che certamente rispolvera il passato (ci mancherebbe altro) ma senza farsi per forza di cose ricattare da esso.

Per cui nessun problema se dopo questo trittico iniziale partono in rapida successione “Vera Nabokov” e “Hipsteria”, versioni belle tirate che scatenano un pogo esagitato e un singalong letteralmente senza senso; momento davvero emozionante, che ci rimette davanti una scrittura brillante e una visione del mondo che, a distanza di più di un decennio, non appare per nulla invecchiata. Il punto dunque non è celebrare, bensì ritrovarci davanti a una band che ha cambiato radicalmente le coordinate del Pop italiano e che ad un certo punto è tornata per riprendere il discorso.

La formazione, anche questo è significativo, è la stessa dell'ultimo tour, se si eccettua l'inserimento alla chitarra di Marcello Enea Newman. Valerio Bulla (basso), Simone Ciarocchi (batteria), Andrea Suriani e Francesco Bellani (tastiere e Synth), certificano un altro dato che probabilmente abbiamo avuto troppo spesso la tentazione di tralasciare: I Cani, al di là del ruolo preponderante che vi possa avere Contessa, sono sempre stati una band vera e propria e questa sera è ancora più evidente.

 

Li ho visti parecchie volte sin dal primo disco (la prima in un Tunnel stracolmo, con più gente fuori che dentro) ma questa è la prima in cui mi abbiano veramente convinto: l'innesto della chitarra ed una sezione ritmica potente e dinamica hanno finalmente dato modo ai brani di risplendere a dovere, il ruolo delle tastiere negli arrangiamenti è risultato cruciale, sebbene non ci siano state chissà quali soluzioni complesse, e lo stesso Contessa è apparso molto più a suo agio di prima.

Per uno come lui, refrattario sin dagli inizi alle luci della ribalta (vi ricordate quando suonavano con i sacchetti di carta in testa?) allergico ai social e mai ripiegato sulle richieste del mercato musicale, non dev'essere semplice stare ogni sera davanti a migliaia di persone entusiaste che urlano i suoi testi a squarciagola. Ha rinunciato ai palazzetti (e avrebbe potuto riempirli senza problemi, visto come sta andando) in favore di un live più intimo e compatto, ripartendo da quei club che erano stati teatro della leg invernale di Aurora e gestendoli con estrema disinvoltura: canta molto meglio di prima, ha ripreso a suonare gli strumenti (chitarra e piano elettrico) così da far pesare meno il fatto che non sia mai stato un frontman, e nonostante dica appena due parole in tutto il live, nel finale di “Lexotan”, obbligatorio pezzo di chiusura, fa crowdsurfing sulle prime file, che lo sostengono per tutta la durata dell'ultimo ritornello.

Nel mezzo c'è stata parecchia roba, un'intensità crescente e nessun calo di tensione, neppure quando sono stati presentati gli episodi del nuovo disco in assoluto più ostici musicalmente: “Carbone”, “Felice”, “Davos”, addirittura “Un'altra onda”, non hanno visto la stessa partecipazione di bordate a cassa dritta come “f.c.f.t.” e “Nella parte del mondo in cui sono nato” (due pezzi che, oltretutto, hanno ribadito come il suo autore, dal punto di vista della scrittura dei testi e della visione della realtà, sia avanti anni luce rispetto a tutto l'odierno panorama It Pop) ma sono state comunque seguite attentamente e decisamente apprezzate.

 

Persino i brani di Aurora, un disco che all'epoca non mi aveva entusiasmato, nonostante lo avessi un po' rivalutato col passare del tempo, sono apparsi più freschi e convincenti: “Questo nostro grande amore” si rivela per quella hit pazzesca che è sempre stata e la gente la canta talmente forte che rischia di far crollare il soffitto; stessa cosa per “Il posto più freddo”, che per quanto possa apparire sdolcinata, è innegabile sia qualcosa che in pochissimi, tra gli artisti italiani, sarebbero oggi in grado di scrivere. E poi c'è il coraggio di esibirsi in solitaria, prima con la chitarra e poi al piano, per due versioni di “Sparire” e “Una cosa stupida” decisamente toccanti.

Peccato per Glamour, di gran lunga il loro album migliore, che è stato alla fine il più trascurato dei quattro, anche se una bella e arricchita versione di “Corso Trieste” è riuscita ugualmente a rendergli giustizia.

Il vestito musicale inedito che è stato dato ai pezzi ha valorizzato soprattutto le tracce dell'esordio, con “Post Punk” energizzata da una coda strumentale reiterata e potente, mentre “I pariolini di diciott'anni” e la canzone manifesto “Velleità” sono apparse di gran lunga più in palla e dinamiche rispetto alle versioni originali.

Miglior concerto de I Cani per distacco, almeno di quelli che ho visto io; la band romana è tornata per l'unico motivo per cui dovrebbe essere consentito tornare: vivere il presente e avere ancora qualcosa di interessante da dire. Sui prossimi sviluppi inutile pronunciarsi perché con Contessa non si sa mai, ma direi di goderceli finché possiamo: stasera hanno dimostrato che se l'etichetta “It Pop” ha mai avuto senso, sono sempre stati loro a incarnarla al meglio.