David Bowie è morto da dieci anni e la storicizzazione della sua opera è ormai fatto compiuto. Lo è probabilmente un po’ di più oggi, che è appena uscito il sesto e ultimo box set retrospettivo a lui dedicato, terminando così il progetto di raccogliere in maniera sistematica la sua discografia, con l’aggiunta di live inediti e materiale d’archivio di varia provenienza.
Operazione costosa (anche se rispetto a quanto si è visto di recente con iniziative analoghe, siamo in un ambito più che accettabile) ma niente affatto superflua, neppure per chi (come il sottoscritto) avesse già a suo tempo comprato tutti i dischi: packaging curatissimo, booklet ricchi di foto, interviste, recensioni d’epoca e racconti estesi dei produttori che hanno di volta in volta lavorato con lui (Tony Visconti, Brian Eno e Nile Rodgers su tutti) abbondanza di materiale inedito, dai live ai remix, fino a voluminose raccolte piene zeppe di bside, outtakes e versioni alternative.
Quest’ultima uscita non fa eccezione ed è interessante per tanti motivi. Si parte dal 2002 e David Bowie, nonostante porti sulle spalle il peso della sua leggenda, è ormai nel complesso un un artista ordinario. Pubblica dischi con regolarità, senza farsi troppi problemi ad esplorare sonorità per lui inusuali (Earthling giocava con la Jungle, 1. Outside si avvaleva della collaborazione con Trent Reznor, The Buddha of Suburbia era incentrato su Ambient ed elettronica) e va in tour piuttosto spesso, così che vederlo dal vivo diviene un’esperienza che potremmo quasi definire abituale (in Italia, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, si ferma sempre per più di una data).
Era anche un contesto differente: la nostalgia non imperava, c’era fame di musica “nuova”, non c’erano ancora i Social ad amplificare l’ossessione del “grande evento”, e artisti come David Jones erano considerati “vecchi”, in molti casi “bolliti”, non per forza tutto ciò che producevano incontrava l’interesse di pubblico e addetti ai lavori.
Fortunato, dunque, chi ha potuto vedere Bowie in quegli anni, godendoselo ancora in uno stato di forma invidiabile, senza una rincorsa folle a biglietti carissimi esauriti nel giro di pochi secondi.
È il 2002, quindi. Alle soglie dei 55 anni, da tempo affettivamente realizzato e reduce da un disco non troppo apprezzato come ‘hours…’, torna a lavorare con Tony Visconti nell’inedito scenario delle Catskills Mountains, con un gruppo di musicisti leggermente diverso e con due ospiti inattesi come Jordan Ruddess (da poco entrato nei Dream Theater) e Dave Grohl.
Heathen, che apre questo cofanetto, è un autentico gioiello, elegante e sontuoso nei suoni, ispirato nella scrittura e contemporaneo nell’impronta come del resto sono sempre stati tutti i suoi lavori. Uno dei migliori Bowie degli ultimi tempi, con “Slip Away” che, per quanto poco citata, potrebbe senza problemi rientrare tra le sue più belle composizioni di sempre.
Reality arriva appena un anno dopo, e prodotto ancora da Visconti e risulta nel complesso meno entusiasmante, anche se non si può certo dire che sia un brutto disco (ma davvero, esiste anche un solo disco brutto, tra i tanti da lui realizzati?).
Quello che seguirà sarà purtroppo anche il suo ultimo tour: dopo avere interrotto un concerto in Germania gli verrà diagnosticata una malattia cardiaca e gli sarà impedita qualsiasi attività live a tempo indeterminato.
È quello il momento in cui sparisce. Per quasi dieci anni non lo vedremo più, né in studio né sui palchi: a parte qualche sporadica apparizione come ospite di altri artisti ed un piccolo ruolo in The Prestige di Christopher Nolan, la sua dimensione pubblica sarà del tutto assente.
The Next Day (2013) segna il clamoroso ritorno, di nuovo sotto la regia di Visconti, registrato a New York in totale segretezza al fine di preservare l’effetto sorpresa. Disco solido e convincente al di là di ogni aspettativa, l’artwork a richiamare esplicitamente Heroes e il video della struggente “Where Are We Now?” realizzato con footage del periodo berlinese, fanno pensare al malinconico guardarsi indietro di chi sa di non avere molto tempo da vivere.
Non è chiaro se a quel tempo sapesse già del tumore (dai racconti di chi ha lavorato con lui sembrerebbe di no ma ovviamente, dato l’assoluto riserbo con cui la faccenda è stata trattata, è impossibile saperlo), ma il fatto che si mettesse immediatamente a lavorare ad un altro disco, suggerisce che qualcosa potesse avere intuito.
Di Blackstar sappiamo tutto: pubblicato nel giorno del 69esimo compleanno, rivelò la sua natura di testamento spirituale solo al momento della morte, avvenuta appena due giorni dopo. Un disco meraviglioso, definitivo, il testamento di un artista che ha letteralmente fatto della sua vita un’opera d’arte, fino all’ultimo istante.
Gridammo tutti al capolavoro quando uscì, la critica fu unanime nello stupirsi per una visione ancora così lucida, per una maturità compositiva ancora così spiccata, un guardare nuovamente in direzioni inedite (il Jazz contemporaneo in particolare, ma Visconti citò anche To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar tra i dischi che lo colpirono di più durante le lavorazioni dei brani).
Quando tutto finì, l’11 gennaio 2016, ogni fotogramma dei video di Lazarus e della title track, ogni verso di ogni testo, rivelarono di colpo come avrebbero dovuto essere letti sin dal principio.
Il lascito di questo cofanetto è dunque questo: quattro dischi in studio, di cui due bellissimi, uno molto buono e un capolavoro indiscusso. Il materiale bonus è forse meno interessante rispetto ad altri capitoli, ma ugualmente meritevole di essere scoperto: ci sono i due EP compendio che seguirono a The Next Day (sette brani aggiuntivi provenienti da quelle session) e a Black Star (tre brani in più, usciti l’anno successivo). Sono outtake e lì meritano di stare, però stiamo pur sempre parlando di Bowie, non c’è nulla di veramente superfluo in quello che ha scritto.
Poi i due live album: A Reality Tour era già uscito all’epoca ma qui è finalmente presentata la scaletta completa di quei concerti, con l’aggiunta di quei tre brani mancanti che in origine erano stati pubblicati solo come bonus track. Show potente e ben strutturato, incentrato sui cavalli di battaglia ma con non poco spazio dedicato al nuovo disco e ad alcune delle cose migliori del recente periodo.
Per i fan la vera chicca è però Montreux Jazz Festival, registrato nel 2002 e disponibile finora solo in formato bootleg (su YouTube si trova anche la registrazione video in multicam). Al di là di qualche ripulitura (l’audio era ottimo già allora, fu trasmesso in radio) è comunque bellissimo avere finalmente a disposizione in versione ufficiale quello che è a tutti gli effetti uno dei più bei concerti della sua carriera: due ore e mezza di durata, scaletta zeppa di classici, quasi tutti i brani di Heathen, e una sezione di bis interamente dedicata a Low, eseguito quasi interamente (manca “Weeping Wall”) e riletto in maniera splendida dalla solita band stellare che lo accompagnava in quel periodo (Earl Slick alla chitarra, Gary Leonard alla chitarra e alle tastiere, Mark Plati al basso, chitarra e tastiere, Mike Garson alle tastiere, Catherine Russell a tastiere e percussioni, Gail Ann Dorsey al basso e Sterling Campbell alla batteria).
Per finire, l’ultimo volume della serie Recall è ancora una volta triplo e contiene, oltre alla solita infilata di remix ed edit version, anche alcune collaborazioni con nomi illustri (Lou Reed, Arcade Fire, John Frusciante, Maynard James Keenan), nonché outtake del periodo Heathen (tra cui “Wood Jackson”, il primo brano ad uscire da quelle session) e alcune tracce dal vivo.
Un must have per chiunque, anche per chi non conoscesse a dovere gli altri periodi: stiamo parlando di uno dei pochi nomi della musica moderna che non può assolutamente essere ridotto unicamente ai suoi lavori più noti.