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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
25/02/2019
VINILI
I cocci di Soul Island, ordini matematici e disordini emozionali
“Se devo fidarmi di chi può valutare, credo su scala cosmica [ci siano rimasti] pochi attimi prima di distruggere noi stessi”. (D. De Matteis)

Certe conversazioni mostrano quanto mondo esiste dietro il suono di un vinile. E questo, sulle prime, non so ancora bene come vederla: una cosa buona per la scoperta umana dell’artista o una cosa poco buona per la poco riuscita codifica tra il suono e l’uomo? In ogni caso è soltanto ora che far girare questo vinile ancora e ancora assume un significato spirituale e contemplativo del tutto nuovo. Si intitola “Shards” ed è l’esordio di Daniele De Matteis che si presenta con il moniker Soul Island. Produttore certamente. Chitarrista a seguire. Figlio degli anni di rivoluzione e di underground, quando la musica si faceva nei garage, quando anche i Dj erano analogici, quando l’elettronica si suonava e quando la saliva cadeva sugli strumenti come fa il sudore d’estate. E da lì che proviene ma non ho ben capito se è una provenienza fisica o solo concettuale.

Perché io quei garage del dopo scuola li ho vissuti e so bene la puzza che c’era, più delle sigarette che ci si ficcava nei vestiti. “Shards” a tratti mi riporta a quel passato, di quando l’elettronica era chimera di un futuro che si vedeva solo alla televisione ed era anche mal fatto, di quando nei telefilm gli alieni conquistavano il mondo volando alla meno peggio e di quando i documentari abbandonavano la musica classica - tanto per fare un minestrone di stile e di cronaca. I suoni erano sottili, circolari, robotici… i paesaggi si chiamavano landscape, il pop si agganciava con nostalgia a quel rock figlio della generazione punk e il minestrone finale suonava come suonano le grandi città, frenetiche e futuristiche, comode e larghe, metalliche e glitterate… spesso fin troppo lente a bilanciare la fretta del tempo e la frenesia quotidiana. Oppure i paesaggi che ci vedi dentro sono fatti di ghiaccio mentre dall’America arrivano i nuovi algoritmi computerizzati. La grafica iniziava ad abbandonare i quadratini sterili, ve li ricordate? Ma tutto questo è solo il mio personale impatto con la musica di Soul Island che, a leggere questa splendida intervista, ci dirà molto altro a contorno. Il problema, un meraviglioso problema direi, è che “Shards” è un disco in vinile pieno di sensazioni sospese, di canzoni pop dal retrogusto di quei ’90, di estesi momenti di osservazione e di strumentali paesaggi, di corpose ritmiche tribali che non è all’Africa quanto ai quartieri di grattacieli e bassifondi che mi fanno pensare… quasi a trovarci su mondi lontani nel tempo e nello spazio… non posso fare a meno che abbandonarmi alle sensazioni che mi restituisce l’ascolto di questo disco ed è un abbandono privo di legacci e di maniglie forti.

E se cito Vangelis e Jarre, come per alcune cose potrei citare anche i Tangerine Dream, è solo per avere un appiglio descrittivo a questi suoni che qui sono più orientati alla forma canzone invece di assimilarli a lisergiche visioni elettroniche. Di certo… avete ragione… ma quel gusto ricorsivo di suoni come spilli e di sequenze che sembrano figlie e sorelle dei computer con lo schermo ancora a quadratini, inevitabilmente mi riporta e mi abbandona lì dove voglio andare.

“Shards” però è anche un bel disco di questa nuova scena italiana fatto di canzoni dal forte taglio internazionale. “Shards” va misurato con un monocolo da orologiaio, con lente scura per osservare da vicino anche la luce del sole. Che questi paesaggi sonori sono immersi di luce solare… ecco perché la voce di Soul Island che canta nelle sue forme di strofe e di incisi, non è che si veda chiara e nitida davanti agli occhi. Appena spunta la faccia, mescolata com’è nel corpo di un suono che davvero merita attenzione.

Un vinile per questo primo disco. Un vinile di musica digitale. Sembra quasi un ossimoro… e invece?

Beh, mentre il disco è decisamente sintetico di suoni digitali c'è ben poco! La gran parte sono sorgenti analogiche. Così come anche i contenuti sono fortemente umani e autobiografici. Poi non vedo tanto il senso del CD come supporto, il vinile invece si porta dietro un colore tutto suo, oltre ad avere una modalità d'ascolto che massimizza l'attenzione verso la musica e i dischi ascoltati per intero.  

“Shards” come cocci. Cocci di questa società, di questa cultura o i cocci che si raccolgono dentro quando si scava per raccontarsi?

Sono i frammenti di una vita complessa piena di rotture e esperienze, sia positive che negative. Resti simbolici, emotivi, in parte personali, ma anche in parte delle sottoculture che hanno dato vita alla musica e all'arte indipendente, della cui identità originaria rimangono in molti casi solo vestigia.

I brani di questo disco pescano quasi con precisione millimetrica a quei suoni ma soprattutto a quell’estetica anni ’90. Penso alle composizioni di Jean-Michelle Jarre ma anche ad una certa produzione di Vangelis piuttosto che a tutto quello mondo cinematografico e documentaristico. Sbaglio? E posso chiederti, nel caso, perché questa direzione?

Rispetto tantissimo Jarre e Vangelis, però credo che questo richiamo se c'è sia incidentale. Gli anni '90 invece, così come anche il cinema d'autore sono sicuramente riferimenti più consapevoli, sono cresciuto consumandoli avidamente. Molta della roba che ho messo in questo disco è soundscaping atmosferico, e la scrittura simpatizza decisamente col post-punk, hardcore, o l'indie acustico di fine millennio. Sono cose che mi rappresentano e quindi trasudano credo inevitabilmente.

Mi colpisce anche un certo mondo percussivo. Brani come “Night Shore” ma anche l’ultima “Mother”, con ovvie virgolette del caso, c’è però una tinta africana nel retrogusto… che mi dici in merito? 

Mi piace pensare al ritmo in maniera viscerale e fisica, sentirlo più che concepirlo. Poi fin dai primi ascolti math-rock sono rimasto affascinato dagli andamenti spezzati non quadrati. È una cosa che sento molto e che ricerco attivamente, spesso mi annoia la semplicità di certi ritmi occidentali, non mi trasmette molto, quindi quando penso ad un beat tutto converge verso ritmiche più trasversali, shuffle o "off".

Io sottolineo due brani su tutti: il primo è “Ocean” ma in particolare lo cito per il video dove torna imperante questa scena anni ’90. Sembra quasi di tornare alle grafiche cubiche di pixel giganti… non è così? Ti ricordi “Automan”?

Eh eh, adesso che l'hai menzionato si è risvegliato un ricordo! Il video di David Chambriard mette a nudo la quinta fra l'uomo e la natura da un lato, e la loro rappresentazione dall'altro. Anche un po’ il paradosso nel difendere un atteggiamento ecosostenibile attraverso media che il più delle volte non lo sono. Quanto del messaggio originale arriva al ricevente?  

Il secondo, uno dei momenti per me migliori del disco, è “Perlin Time”. Parlami di questo titolo… ma poi, spulciando tra le note di stampa: che sia questo il momento più sociale di tutto l’ascolto?

È un riferimento diretto a Ken Perlin. Oggi usiamo il suo algoritmo o permutazioni per dare un effetto di realtà quando simuliamo fenomeni naturali al computer. Il pezzo è una raffica di domande sul risvolto etico dello sviluppo tecnologico, fino a che punto si può arrivare e cosa si è disposti ad accettare o mettere da parte, quindi immagino che sì, ci sia una questione sociale dentro.

E riprendo proprio quelle note e ti chiedo: secondo te quanto tempo ci è rimasto prima di distruggere ogni cosa?

Se devo fidarmi di chi può valutare, credo su scala cosmica pochi attimi prima di distruggere noi stessi. È così frustrante vedere topic tipo l'immigrazione prendere la precedenza sugli evidenti cambiamenti climatici. L'agenda è al 99% sbagliata e gli sforzi di noi singoli quasi irrilevanti rispetto ai danni prodotti dalle grosse entità. Comunque io mi tengo ottimista, la nostra capacità di capire e influenzare la realtà può essere sovrastimata, e spero che in fondo non abbiamo capito niente...

Chiudo con un ago infettato. Inevitabile citare Sanremo. Un mondo che probabilmente non ti avrà mai. Però è altrettante inevitabile citarlo parlando di questo disco. Cosa è diventata “la canzone italiana”? E qui mi riferisco anche al sistema televisione… che tipo di cocci sono?

Credo che la "canzone italiana" non sia mai stata diversa, basta passare in rassegna tutti i primi arrivati del festival negli anni. Anche l'indie che ha fatto capolino a Sanremo quest'anno, ci è arrivato col pezzo fatto apposta invece che con la propria identità. Ovviamente c'è un lento e graduale spostamento stilistico per venire incontro al cambiamento strutturale nella musica e nella società, ma è un po’ come l'inflazione, il potere d'acquisto non cambia, il driver è lo stesso. Poi Sanremo mi ha sempre fatto pensare a una roba provinciale, inclusiva come il colonialismo culturale occidentale, non discrimina se ne sposi i valori. Mi dispiace che gente come me non sia rappresentata, in fondo anch'io sono "italiano"…