Frank Iodice vive tra la Francia e gli Stati Uniti da circa vent’anni. Ha pubblicato romanzi e racconti che sono stati tradotti in inglese, francese, spagnolo e portoghese, tra i quali si ricordano: “Anne et Anne” (2003), “Acropolis” (2012), “Gli appunti necessari” (2013), “Le api di ghiaccio” (2014) e “La meccanica dei sentimenti” (2018). “I disinnamorati” è il suo ultimo lavoro, pubblicato nel 2019 in Italia dalla casa editrice Eretica Edizioni.
Da cosa è nata l’idea alla base del romanzo I disinnamorati?
L’idea che sta alla base della vicenda umana di Antonino Bellofiore è un’indagine privata che sostituisce quella pubblica. È nata davanti a tre cartoline del ’52, trovate su un banco di un mercatino dell’usato. Quando le ho viste, in un attimo, ho immaginato tutta la storia. I protagonisti invece si sono sviluppati lentamente dentro di me mentre io stesso vivevo il disinnamoramento e mi vedevo dall’esterno a mano a mano che mi allontanavo da lei, incapace di baciarla come desideravo e dirle che l’amavo, fino a quando il libro ha iniziato a prendere forma e tutto il resto si è smembrato.
Quali sono le tue abitudini nella scrittura? Come gestisci un nuovo progetto letterario, preferisci concentrarti prima sullo sviluppo della trama oppure sulla caratterizzazione dei personaggi?
Mi fai venire in mente un professore di creative writing della Florida State che prima di iniziare a scrivere si toglieva le scarpe e i calzini. Aveva girato persino dei video per mostrare i piedi a tutti. In realtà, io non ho abitudini né riti particolari e se ne avessi li terrei per me. Scrivo sempre, dovunque, anche il retro delle bollette va bene, e se non scrivo leggo. A volte non scrivo per mesi, altre volte non dormo per mesi. Quando ho una visione per una nuova storia la lascio sedimentare per un po’ e aspetto che sia contaminata da altre visioni. L’attimo in cui capisco come legarle tra loro, inizio un nuovo romanzo. Quasi sempre nascono prima i personaggi, ispirati da incontri notturni o da strani sogni probabilmente provocati dagli antinfiammatori a base di oppiacei che il mio medico (forse segretamente appassionato di lettura) mi prescrive con il pretesto di alleviare i dolori cronici per l’ernia cervicale… La trama è quasi sempre una conseguenza di come sono fatti i protagonisti, come se non ci fossero alternative e si dovessero muovere per forza nel mondo che si sono costruiti con le loro mani. Non sta a me salvarli, io racconto solo la loro vicenda.
Quali sono i temi portanti del romanzo I disinnamorati?
L’abbandono. La tragedia familiare che può perseguitarti fino a rovinare quel brandello di felicità che sei riuscito con fatica a ritagliarti. Il disamore infine, come unica alternativa alla paura della solitudine.
Ci racconti qualche dettaglio sul processo di caratterizzazione dei personaggi di Antonino e Anisetta?
Avevo scritto la storia di Bellofiore un anno prima di scrivere I disinnamorati. Un commissario di polizia quarantenne, buffo e disilluso, autoironico e pessimista perché ha perso l’unica donna che ha davvero amato. Poi ho sentito l’esigenza di investigare nel suo passato per scoprire le ragioni del suo carattere e soprattutto il processo di disinnamoramento che era alla base della sua psicologia. Anisetta è molto più coerente in quello che dice e che fa, il sapore dolce dello zucchero si nasconde dietro quello amaro del liquore di cui porta il nome. Nel libro la definisco in tanti modi per cercare di delineare il suo carattere, ad esempio “conoscitrice di auree immaginarie”, “raccoglitrice di frutti”, “dominatrice del dubbio”, “rivelatrice di paradisi”. Anisetta è nata in antitesi a Bellofiore. Si sono incontrati sulla Prom, per caso, è vero, ma “chi crede nei sogni non crede al caso”. Lei è razionale, sa cosa vuole e sa come ottenerlo, si sta per laureare in psicologia, non una materia qualsiasi, e questa è per lei una salvezza, una soluzione, non solo narrativa... Ho creato con Anisetta la donna di cui avevo paura, perché in grado di capirmi nel profondo e guardarmi negli occhi mentre si muove su un altro uomo per dimostrarmi che il male che le ho fatto privandola del mio amore non l’ha uccisa ma l’ha resa più forte. Punendo Antonino ho punito tutti gli uomini come me, che hanno commesso “l’errore più comune quando si ama qualcuno: dimenticarsene”.
Hai degli autori di riferimento che ti hanno spinto a diventare uno scrittore? E qual è, se c’è, l’opera da cui torni più spesso per cercare conforto o ispirazione?
Ho iniziato da bambino riscrivendo il finale dei grandi classici, Moby Dick, L’isola del tesoro, Robinson Crusoe, Il richiamo della foresta, coprivo le ultime pagine prima di leggerle e le reinventavo. Erano questi i primi autori in cui mi sono imbattuto, con la strana consapevolezza che un giorno avrei provato a scrivere anche la prima parte di un libro. I miei riferimenti sono cambiati a mano a mano che diventavo “grande”, ho letto soprattutto letteratura sudamericana, fino a raggiungere un’altra consapevolezza: se ami la lettura, rimani per sempre un bambino.
Hai avuto una vita molto avventurosa. Quanto ha inciso sul tuo percorso umano e professionale? Che significato ha per te il viaggio?
Forse l’avventura è restare, non partire. A vent’anni ho fatto quello che molti italiani sono costretti a fare: ho cercato la mia strada altrove. Vivere lontano dal tuo paese è triste da un lato perché quando racconti una barzelletta metà della gente non la capisce. Ma è anche formativo, ti insegna a stare in pace con te stesso. Ho lasciato l’Italia anche per un’esigenza personale, difficile da spiegare in due parole. Diciamo che avevo voglia di scoprire in quanti modi si può preparare una capricciosa. Vivere all’estero comunque ti insegna a vedere il tuo paese da tanti punti di vista. A volte ciò ti rende orgoglioso di essere italiano, altre volte un po’ meno. Ho sempre amato viaggiare, sono cresciuto ascoltando i racconti di mio nonno sulla sua prima vita in Venezuela prima di tornare in Italia con mia nonna e mia madre. Cambiare spesso città da bambino ha influito molto sul mio stile di vita. I continui traslochi dei miei genitori per motivi di lavoro, e prima ancora, le esperienze traumatiche in un istituto tenuto dalle suore, non mi hanno permesso di costruire un legame solido con una città, né quella in cui sono nato, né le altre in cui di volta in volta ci trasferivamo con tutta la baracca. È per questo che il giorno in cui ho compiuto 18 anni avevo già la valigia pronta: sono partito per cercare stabilità, non avventura. All’inizio m’imbarcavo ma dopo qualche mese ritornavo a casa. Come quando il piccione fa le prime prove dal nido. Poi è successo tutto per caso, un’esperienza dopo l’altra, tanti lavori, tanti incontri fortunati, altri disastrosi, amicizie nate in una cabina di una nave davanti a una cassa di birra, amori di una notte che mi hanno ispirato le pagine più belle e anche quelle più tristi che abbia mai scritto. Alla fine, non so dirti cosa sarei diventato se fossi rimasto a Salerno, dove tuttora vivono i miei. È andata così, mi sono formato in un altro paese accettando i suoi pregi e i suoi difetti. E ancora non ho capito qual è la ricetta migliore per la capricciosa.
Pensi che Antonino Bellofiore tornerà in un tuo prossimo romanzo?
Diciamo che è già tornato. Aspetta solo di essere pubblicato…
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