La notizia che abbiano unito le forze per un progetto che esce ora sotto l’importante egida de La Tempesta, non ci lascia sorpresi, al netto di una certa assuefazione per i “supergruppi”, in un’epoca in cui capitalizzare il peso del proprio nome sembra essere uno dei modi principali per sbarcare il lunario nell’ambiente musicale.
“I Hate My Village” si avvale del decisivo apporto di Alberto Ferrari dei Verdena, che si occupa delle linee vocali e possiede un’altra sicura garanzia di qualità nel lavoro di produzione di Marco Fasolo (Jennifer Gentle), ormai tra i nomi più affermati in questo campo.
Un lavoro dalla struttura ambigua, con durata ridotta (24 minuti appena) ma un numero di tracce sufficiente a farcelo battezzare come un vero e proprio disco, piuttosto che un ep.
Nell’avventurarsi nei territori della musica africana, privilegiando il ritmo piuttosto che le melodie portanti, è inevitabile che venga alla mente “My Life in the Bush of Ghosts”, quel disco firmato a quattro mani da Brian Eno e David Byrne, che oltre a scorrazzare nei territori della World Music, ne condivideva anche l’impostazione “antropologica”. Oppure i Goat, il collettivo svedese che, con tanto di maschere e danze tribali ben presenti nei suoi live show, ha fatto del mix tra Funk e musica etnica l’elemento principale del proprio sound.
È il ritmo, come detto, ad essere in primo piano, con i riff spezzati e pieni di groove di Viterbini a fare un tutt’uno col gran lavoro percussivo di Rondanini. Pochi i brani cantati e poche le melodie riconoscibili: la scelta è piuttosto quella di lanciarsi a briglie sciolte producendo un flow che scorre senza soluzione di continuità, andando oltre la canonica divisione in tracce.
La conseguenza è che ci si muove parecchio, trasportati dalla componente istintiva, tribale, sottesa ai pezzi e dalle notevoli finezze tecniche disseminate qua e là, ma si fatica a trovare dei punti di osservazione privilegiata, dei nuclei melodici a cui aggrapparsi, che possano fungere da chiave interpretativa per l’intero lavoro.
A conti fatti, è forse questo il difetto principale di un disco che, per quanto gradevole, rischia di scadere presto nella ripetitività e nel manierismo e di essere esaltato solo per l’alto livello della performance dei suoi protagonisti. Li attendiamo dal vivo (si imbarcheranno a breve per un consistente tour nei club che toccherà tutta Italia) e vedremo se in una dimensione per forza di cose “dilatata” avranno modo di esprimere a pieno il proprio potenziale e di farci vedere qualche declinazione inedita della loro proposta. Nel frattempo, li promuoviamo con riserva.