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REVIEWSLE RECENSIONI
28/08/2025
Haim
I Quit
Tra chitarre vintage, sample intelligenti e uno humour tutto californiano, le Haim tornano con I Quit, un album che parla di rotture senza drammi, di libertà senza retorica e di pop suonato con disinvoltura contagiosa.

Se per caso qualcuno si sta chiedendo se le Haim abbiano ancora qualcosa da dire al quarto album, la risposta è sì. Ma, come spesso accade con loro, il messaggio arriva in modo obliquo, avvolto in chitarre anni Settanta, campionamenti intelligenti e un’aria di disinvoltura che, in questo caso, è più una strategia che una posa.

Il titolo dell’album, I Quit, è stato preso in prestito dal film di culto Music Graffiti di Tom Hanks, il cui titolo originale (That Thing You Do!) prende il nome dalla canzone scritta dal compianto Adam Schlesinger dei Fountains of Wayne e interpretata dai The Wonders, band immaginaria degli anni Sessanta protagonista della storia. Ma in I Quit non c’è nulla di davvero nostalgico – né nella dichiarazione, né nel riferimento. È più una presa di posizione: lasciare andare le relazioni tossiche, smettere di preoccuparsi delle aspettative altrui e (forse) anche dire addio a certe rigidità musicali del passato.

Non è un caso che per la prima volta Ariel Rechtshaid, co-produttore e partner di lunga data di Danielle Haim (i due si sono lasciati nel 2022), sia assente dai credits. Al suo posto ora c’è l’ex Vampire Weekend Rostam Batmanglij, che aiuta le sorelle Alana, Danielle e Este Haim a spingere il loro suono in direzioni meno levigate e più organiche.

 

Il risultato è un album che riesce a suonare allo stesso tempo istintivo e consapevole. La traccia d’apertura, “Gone”, prende in prestito il coro di “Freedom! ‘90” di George Michael e lo trasforma in un inno liberatorio. È un’operazione furba, certo, ma funziona sorprendentemente bene: l’aria spavalda del pezzo dà il tono al resto dell’album, che parla di rotture non come drammi, ma come momenti di rinascita personale. "Born to run / Can’t be held up / Now I’m free / Finally", canta a un certo punto Danielle, e difficilmente si può immaginare un’intenzione più chiara.

I Quit è pieno di quelle cose che solo le Haim sanno fare così bene: ritornelli che si stampano in testa, arrangiamenti morbidi ma mai banali, e una certa inclinazione per le citazioni sonore. “Relationships” (uno dei brani migliori) gestisce con notevole equilibrio frustrazione, sarcasmo e una linea di basso irresistibile, mentre “All Over Me” affronta la dinamica dei casual dating con una leggerezza che non scivola mai nel superficiale. “Down to Be Wrong” (che potrebbe essere stata benissimo scritta da Sheryl Crow a metà anni Novanta), invece, offre una delle immagini più cupe del disco ("I crushed up these pills / I still couldn’t take ‘em"), ma lo fa con una melodia dolceamara che disarma.

 

A livello musicale, il trio si muove come di consueto con sorprendente elasticità: c’è del soft rock californiano anni Settanta (i debiti con i Fleetwood Mac in tutto il disco sono enormi), ci sono elementi R&B, e addirittura momenti che flirtano con lo shoegaze alla My Bloody Valentine (“Lucky Stars”) e con il country/americana simil The Band (“The Farm”). Il rischio, naturalmente, è quello di perdere un po’ di coerenza lungo la strada, e in effetti la seconda metà dell’album fatica a mantenere l’energia iniziale. Brani come “Spinning” e “Cry” non sono certo deboli, ma sembrano più delle variazioni sul tema che colpi centrati.

C’è anche la questione della lunghezza, infatti. Quindici tracce sono troppe? Probabilmente sì, ma è un problema che le Haim si portano dietro da tempo. La loro tendenza a voler esplorare ogni possibilità può portare a un leggero effetto “playlist del cuore”, dove alcuni momenti sembrano imprescindibili e altri un po’ di troppo. Detto questo, quando colpiscono nel segno – come in “Everybody’s Trying to Figure Me Out” o nella conclusiva “Now It’s Time”, che campiona “Numb” degli U2 dopo che gli irlandesi hanno inconsapevolmente plagiato “My Song 5” nella loro “Lights of Home” – lo fanno con la classe di chi sa perfettamente cosa sta facendo.

Anche sul piano testuale, l’album colpisce più spesso di quanto manchi il bersaglio. Frasi come "Tesoro, come si spiega che un errore innocente è durato 17 giorni?" (“Relationships”) o "Giuro che non t’importerebbe se fossi morta per strada coperta di sangue" (“Blood on the Street”) mostrano una scrittura che riesce a essere tagliente senza diventare teatrale, intima senza indulgere nel melodramma.

 

Ma forse ciò che rende I Quit davvero interessante è il fatto che, per quanto parli di addii, è in realtà un disco che celebra la possibilità di restare fedeli a se stessi, al proprio gusto musicale, al proprio modo di essere popstar senza bisogno di iper-produzioni o featuring di tendenza. Le Haim non stanno tentando di reinventare il pop contemporaneo, ma continuano a proporre una loro versione personale, riconoscibile e, a tratti, davvero contagiosa.

Insomma, non tutto funziona in I Quit, è vero, e il disco probabilmente avrebbe beneficiato di un po’ più di editing. Ma c’è qualcosa di affascinante nel modo in cui le Haim scelgono di raccontare la propria libertà: non come un’epifania drammatica, ma come una serie di scelte quotidiane, anche musicali, che dicono: "possiamo fare ciò che vogliamo, e questa volta abbiamo voluto farlo così".