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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
31/01/2022
Due chiacchiere con...
Ibisco
L’Emilia come “non luogo” dell’anima, un bianco e nero di immagini sfocate dove ragazzi sfrecciano in motorino e si abbandonano sulle panchine, alla ricerca di un futuro luminoso che tuttavia non sembra intravedersi. La quotidianità disperata della provincia al centro della scena. Ibisco e le sue bellissime canzoni. Ne parliamo direttamente con Filippo Giglio, volto e autore del progetto.

L’Emilia come “non luogo” dell’anima, un bianco e nero di immagini sfocate dove ragazzi sfrecciano in motorino e si abbandonano sulle panchine o fuori dai tavoli dei bar, alla ricerca di un futuro luminoso che tuttavia non sembra intravedersi. La quotidianità disperata della provincia al centro della scena, la bellezza di queste canzoni, non allegre ma senza dubbio non rinunciatarie, come unico talismano contro la noia e la sconfitta. Ho già parlato di Ibisco e del suo folgorante disco di debutto in sede di recensione, inutile dilungarsi. Mi limito solo a ripetere quello che ho già scritto lì, perché secondo me è importante, anche se sono io a dirlo: per uscire dalla crisi occorrono dischi così, alimentati dal sacro fuoco della passione e posizionati in quel territorio ancora misterioso che sta a metà tra il Pop contemporaneo e i capisaldi di un passato che sarebbe ora di riprendere non solo in senso pedissequamente filologico.

Nell’attesa di capire se ci saranno riscontri commerciali (anche se qualcosina si sta già muovendo) ho chiacchierato con Filippo Giglio (volto e autore effettivo di questo progetto) per saperne di più su quello che, è presto ma non ho dubbi a riguardo, sarà uno dei miei dischi italiani dell’anno.

 

Dal mio punto di vista questo è un disco importante, che potrebbe aprire una strada inedita in un momento in cui il Pop italiano sembra avvitato su se stesso. Si capisce bene quali sono le tue radici: c’è la New Wave, si sentono i Depeche Mode, però è un disco Pop, magari non proprio allegro ma Pop. Hai fatto una cosa nuova, secondo me, per quanto poi possa avere senso parlare di “nuovo” nel 2022…

Ti ringrazio per le belle parole e per questo inquadramento perché quello che tu dici rientrava nei miei intenti al momento di registrare. Partendo da una sorta di commistione di idee e di influenze che attingono dal passato (volente o nolente, perché poi uno è circondato da tanta musica che ascolta, non sempre perché lo vuole fare), il mio obiettivo e quello del team produttivo era di creare qualcosa che avesse un certo grado di discontinuità rispetto alle macro ondate che stiamo vivendo adesso: Indie, Trap, musica elettronica applicata al cantautorato e cose così. Volevamo mettere insieme questo elementi, che sono sicuramente le tre grandi aree della musica italiana in questo momento, per creare qualcosa che alla base avesse una forma espressiva e una sincerità che la facesse rientrare nel cantautorato però, allo stesso tempo, con un’impronta sonora che non fosse per nulla orientata al consenso ma che rappresentasse con esattezza le mie idee, la mia estetica, il mio immaginario. Non volevo in nessun modo compiacere l’ascoltatore, fare qualcosa con l’idea che avrebbe per forza dovuto posizionarsi all’interno di un mercato. Credo che questa sia la ricetta giusta per fare una musica che poi, per assurdo, sia in grado di farsi notare.

 

Che poi tu hai una licenza Universal, quindi vuol dire che qualcuno se n’è accorto, della bontà di queste canzoni e ti ha già messo nelle condizioni di uscire un po’ dalla nicchia, no?

L’intento era comunque quello di fare un disco Pop, anche se in un modo che magari all’inizio avrebbe potuto essere difficile da recepire; diciamo che non abbiamo mai pensato di rivolgerci ad un gruppo ristretto di appassionati. Potrebbe sembrare un obiettivo ambizioso ma io vorrei in qualche modo cercare di cambiare il paradigma dell’ascoltatore, di fargli capire che la musica pop, il cantautorato, hanno anche delle altre dimensioni e che se all’inizio possono suonare strane, col tempo poi possono pure sembrare più accoglienti. Il discorso della Universal fa parte dell’unire diversi elementi, il partire dall’Underground ma senza mettersi chissà quali paletti. Anche perché, sinceramente, l’obiettivo di chi fa musica è sempre quello di arrivare a più gente possibile, quindi se c’è l’interessamento di una casa discografica grossa non vedo perché non dovrei privarmene a priori per una scelta ideologica. Che poi, ci tengo a dirlo, si parla di major ma in realtà dietro ci sono delle persone, che o hanno le tue stesse idee oppure non ce le hanno. Nel mio caso è andata proprio così: c’era una persona che ha creduto nel progetto, che si è allineata alle nostre idee e si è lavorato come un gruppo di esseri umani che hanno la stessa visione di un progetto. Poi certo, quando sei con una Major hai la possibilità di permetterti qualche investimento in più, sono tutte cose che aiutano. Sono molto contento, dunque, del percorso che abbiamo intrapreso a livello discografico.

 

Com’è stato il processo che ha portato dalle canzoni al prodotto finito? Ho letto che all’inizio le hai registrate col telefonino e poi hanno cambiato veste. Da quanto tempo le stavi scrivendo?

I primi provini di questo disco risalgono al 2018-2019, quindi a parecchio tempo fa. Avevo, ho tutt’ora un telefono con installato Garage Band, che mi ha dato la possibilità di registrare dei provini, quindi in questo modo ho avuto un primo approccio ad una musica che potremmo definire elettronica, nel senso che ho creato una base che poi mettevo in cuffia e su cui improvvisavo e cantavo. Un metodo dunque diverso e più libero rispetto a quello solito di mettersi a scrivere alla chitarra o al pianoforte, che ti vincolano molto anche a livello metrico, che occorre dunque padroneggiare più che bene per ottenere risultati accettabili. Al contrario, questo humus elettronico mi ha dato la possibilità di uscire dagli schemi che mi ero imposto fino ad allora. Quando poi sono arrivato ad avere un pacchetto di idee (neanche canzoni, solo delle idee!) che reputavo essere abbastanza complesso, ho iniziato a lavorare in studio con Marco Bertoni e lì la crescita è stata notevole. Abbiamo comunque voluto preservare quell’urgenza, quella ingenuità dei provini, facendo crescervi attorno un universo sonoro che dal punto di vista produttivo fosse competitivo con tutto il mondo su cui volevamo affacciarci.

 

Marco Bertoni è un nome importante. Come ci sei arrivato?

L’ho conosciuto sei anni fa, più o meno, quando avevamo cominciato (all’epoca eravamo in tre) ad approcciarci alla scrittura di pezzi nostri e stavamo cercando un produttore. Abbiamo trovato Marco tramite conoscenze comuni, io e lui siamo rimasti in contatto e mi è sembrata la persona più indicata a lavorare insieme su questo disco. Quando è stato il momento di definire il discorso produttivo mi sono affidato subito a lui, quindi.

 

Il disco si apre con “Meduse” che è un pezzo enorme, dal grande potenziale. È stato il primo singolo che hai fatto uscire e per com’è fatto non mi aspettavo di trovarlo proprio in apertura. È una scelta interessante, dal mio punto di vista…

Il discorso tracklist, devo dire la verità, l’avevo già affrontato ancora prima di far uscire i singoli, nel senso che avevo già in mente l’ordine delle canzoni più idoneo, per tutta una serie di motivi. “Meduse” è un pezzo che per certi aspetti si mimetizza bene nell’Indie; mi piaceva quindi che il primo brano non rappresentasse una sterzata troppo brusca sulle aspettative dell’ascoltatore ma che il percorso venisse guidato attraverso una crescita narrativa ed espressiva. Il caso ha poi voluto che i singoli già usciti fossero alternati ai pezzi inediti: detto da uno che ascolta dischi da quando ha 13 anni è una cosa interessante, direi anche furba perché si oscilla tra ciò che è nuovo e ciò che è già conosciuto, così che la fruizione possa essere più semplice. Tornando a “Meduse”, rappresenta un ponte tra il mondo della musica italiana da cui provengo e il luogo dove vorrei andare. Inizialmente lo volevamo produrre un po’ di più, anche perché è nato da una base fatta con Garage Band, esattamente come gli altri. Una volta in studio però ci siamo accorti che più aggiungevamo cose e meno arrivava, perdeva molta della sua potenza espressiva. È un brano semplice, anche la parte di piano non è niente di che, sono solo degli accordi appoggiati, qualcosa che chiunque abbia appena iniziato a suonare potrebbe fare. Ci siamo accorti che puntando di più sull’aspetto minimale, sulla povertà materiale dei mezzi usati (la chitarra è una Esquire da 100 euro, niente di più!) la resa era decisamente diversa.

Come si vede anche dal videoclip, racconta di viaggi di ritorno da una situazione di conflitto accaduta probabilmente di sera, con una presa di coscienza su un rapporto non dico tossico ma comunque difficile, che crea dipendenza. È stato anche uno dei primi ad essere stati scritti, assieme a “Ragazzi”, “Pianure” e “Tintoria”.

 

Possono essere intese come una sorta di manifesto generazionale, “Meduse” e “Ragazzi”? Non mi piace come definizione ma mi sembra, dai testi, di vederci questo…

“Ragazzi” secondo me è il pezzo più emblematico del disco, infatti mi spiace che sia quello che al momento ha ottenuto meno streaming…

 

In effetti è strano, ha questo mood a la Cosmo che è sicuramente vincente…

Boh, staremo a vedere. Ad ogni modo è un brano che sin dall’inizio, per il cantato e per l’andamento generale, ho considerato una sorta di inno, qualcosa con cui esorcizzare il male della desolazione, del “Nowhere” del titolo, di questi spazi che ormai sono stati privati di qualsiasi valore oggettivo, di certezza. È un non luogo, dove la soluzione è abitare sempre più dentro noi stessi perché le risposte le possiamo trovare lì e non fuori. In questo senso è vero che è un pezzo che ambisce a racchiudere la dimensione globale del disco. Anche “Meduse”, se per questo, ma “Ragazzi” molto di più.

 

In generale si tratta di un disco drammatico, urgente, senza dubbio in bianco e nero, ma non è un disco di sconfitta, sono canzoni che gridano qualcosa che c’è piuttosto che qualcosa che si è perduto, non so se si capisce…

Sì, oggi pensavo anch’io la stessa cosa. Non fa trasparire un’immagine lusinghiera ed ottimista del mondo, della psicologia delle persone però il sentimento di base è l’orgoglio: partendo dal fatto che il mondo è così, tanto vale viverlo con orgoglio, con la voglia di manifestarsi nel modo più completo possibile, esprimendosi, cercando di mischiarsi al mondo nel modo migliore che si può. Io di mio sono molto pessimista e nichilista però credo anche che prima o poi uno si abitui a questa cosa qui: vivere attivamente e con orgoglio, portando avanti le proprie idee come unica scelta da fare. È un disco quindi che vede nella realizzazione della propria esistenza un motivo di fierezza e questo alla fine ne sposta molto il focus emotivo.

 

La cosa più forte di questo disco sono le linee vocali, in particolare brani come “Chimiche” o “Quartieri” hanno veramente un potenziale enorme. Mi colpisce come tu riesca a concentrare le urgenze e le emozioni dentro pochi elementi, in maniera così efficace…

Ti ringrazio. Le linee vocali nascono spesso e volentieri da idee che mi si formano in mente oppure, come ultimamente accade spesso, da Jam Session vocali che improvviso sulla base elettronica. In questo modo riesco a vivere il processo creativo in modo quasi inconscio, faccio fluire sensazioni. La difficoltà vera probabilmente è individuare, intercettare quelle linee che si distinguono dal resto e che si sposano alla perfezione con una parte di testo che era già stata scritta. Nel momento in cui vengono individuate, possono poi guidare il resto della scrittura. Per me è molto importante la musicalità delle parole, sebbene l’italiano non sia una lingua facile in questo senso. La musica però ha anche un aspetto “astratto”, per così dire, non ha per forza bisogno del testo per comunicare emozioni. Già il suono della voce, l’intenzione, la linea melodica fanno molto. La musica classica, del resto, non ha testo ma se la ascolti ti emozioni comunque. Nel processo creativo è comunque importante per me che le parole siano rese inscindibili dalla melodia, che compongano un tessuto unico, senza che un aspetto prevalga sull’altro.

 

In “Tintoria” hai messo in apertura un sample con la voce di Pasolini: si tratta di riflessioni sul potere e sull’omologazione che sono sempre attuali e che si sposano perfettamente con la tematica del disco…

Mi piaceva molto l’aspetto provocatorio della questione. Non polemico, attenzione, bensì provocatorio. Il pezzo in sé è una critica al perbenismo per cui quella frase costituisce una provocazione perfetta rispetto a quelle menti che sono plasmate da questo. Quando voglio raccontarla in una frase dico sempre questo: “È una canzone contro il perbenismo”, anche se poi magari ci sono dentro molte più cose che scoprirò solo col tempo. Sai, ogni canzone funziona un po’ come una seduta di autoanalisi, le cose vengono fuori poco a poco. Comunque, subito prima di chiuderlo, ho pensato di inserire questo sample vocale di Pasolini anche se, me ne rendo conto, una scelta di questo tipo non è proprio vincente dal punto di vista commerciale, sarà difficile che vada in radio (ride NDA)! È stato un atto masochistico ma necessario, diciamo così… Peraltro oggi non esistono più personaggi dotati di quell’arguzia, di quella profondità. È per questo, credo, che resistono al tempo…

 

I tuoi testi sono molto belli. Prima parlavi di sedute di autoanalisi ed in effetti è così. Io per esempio ho fatto questo tipo di esperienza: non capisco di che cosa parli nello specifico ma capisco cosa vuoi comunicare; e poi mi piacciono molto come sono scritti, il modo in cui combini le immagini, anche attraverso accostamenti improbabili. E quindi non mi interessa chiederti di che cosa parlino perché penso che il punto importante sia cogliere il messaggio, non decifrarne le singole componenti.

Mi fa piacere che tu faccia questa osservazione. Ho un approccio molto istintivo, poco razionale, scrivo senza domandarmi il perché stia dicendo proprio quella cosa lì, intuisco che sto scrivendo cose forti dal punto di vista comunicativo e tanto mi basta. Sono parole che arrivano in modo quasi inconscio, si fanno guidare dalla musica, c’è un rapporto di sostegno reciproco. Per me è faticoso scrivere i testi, soprattutto finirli: mi riesce bene produrre immagini durante la fase creativa ma poi chiuderli mi ha sempre richiesto parecchio impegno perché ogni riga deve avere un certo tipo di peso, non ci si può accontentare di una parte che si sente più debole, ecc. Il bello di scrivere testi è che è una cosa che si fa fatica ad imparare: ognuno ha il suo modo che è incedibile, non si può insegnare.

 

“B”, altro pezzo che funziona molto bene, è anche l’unico in cui è presente un featuring… com’è nata questa tua collaborazione con Enula?

Non ci conoscevamo, mi è stata proposta dalla casa discografica. È stata l’opportunità di intraprendere una sfida: lei è molto brava ma viene dal mondo dei Talent, da cui ho sempre cercato di tenermi lontano. Mi piaceva però l’idea, che poi è quello che dicevo all’inizio, di ingurgitare tutto quello che c’è intorno e farne uscire una versione tua che poi è un mix migliore di tutte queste esperienze di vita. Nelle quali, si potrebbe dire, c’è anche il Talent perché nonostante io non sia certo un amante del genere, li ho sempre seguiti, in modo diretto o in diretto. Certo, il primo motivo per cui ho accettato è perché la ritengo molto brava; ci ho però visto anche una possibilità per me di crescita e di apertura mentale, oltre che il far coesistere due mondi che possono apparire lontani ma che si possono avvicinare se chi si adopera in tal senso lo realizza con un senso. In questo senso è stata una bella soddisfazione, sono molto contento del risultato finale.

 

Parlando dei live, c’è qualcosa in programma? Ti ho visto a settembre al Mi Manchi Ancora ed eravate in due con tante basi, mi è sembrata una cosa ancora provvisoria…

Sì, quelli erano concerti in formazione ridotta, il mio obiettivo è di portare uno spettacolo con almeno tre persone sul palco, un basso vero e una batteria vera, aggiungere atmosfera e una performance musicale che faccia vivere un’esperienza, che dia quel flavour da concerto bello, per lo meno quello che per me è un concerto bello. Ho in mente una cosa tipo I Cani all’inizio, periodo “Glamour”, partendo quindi da un disco elettronico, con batterie campionate ma poi farlo vivere live, nella dimensione che si merita il live, con delle persone che suonano, ecco. L’idea è quella di cercare di suonare il più possibile nei prossimi mesi, appena si potrà.