Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
15/11/2021
Curtis Harding
If Words Were Flowers
Definito “l’artista che ha innalzato il revival del soul a forma d’arte”, Curtis Harding riappare con undici vorticosi affreschi di vita, generati dalla sua tavolozza multicolore. If Words Were Flowers è l’album della consacrazione, che ne certifica il distacco dalle influenze e lo pone ai vertici della black music moderna.

Sono già passati sette anni dall’esordio, il tonificante Soul Power, seguito nel 2017 dall’acclamato Face Your Fears, e ora eccoci qui, grazie al meraviglioso, rivoluzionario, If Words Were Flowers, disco della maturità in cui Curtis Harding, sempre più caparbiamente, mischia stili e generi inaspettati.

Il termine che rende meglio l’idea per definire la sua musica forse è proprio quello da lui coniato: slop ‘n’ soul, dove “il soul è il fondamento, mentre lo slop è la sbobba data ai maiali in fattoria. Ebbene tale brodaglia è un amalgama, un po’ indigesto e puzzolente, di tutto quello che prima c’è stato a tavola: questa è la mia concezione musicale, un’incasinata mescolanza di idee differenti, però con un sapore deciso”.

 

“If words were flowers

I’d give them all to you

They carry power

So proud and beautiful.”

“Se le parole fossero fiori le darei tutte a te. Portano una forza così gloriosa e bella.

 

L’incipit è di quelli folgoranti. La title track, inno di ringraziamento alle persone a cui siamo più legati nella vita di ogni giorno, affascina per quell’inusuale intro, con tromba, sassofono tenore e clarinetto basso in evidenza, preparatorio al successivo, magnetico groove prodotto proprio da un riff di fiati. Un coro spiritual esclama le rime sopra citate e sembra di vivere un rito iniziatico, anzi effettivamente è così, si tratta del benvenuto nella bolgia dell’universo ribollente di Harding.

Tutti gli insegnamenti dell’altro Curtis, che di cognome fa Mayfield, di Isaac Hayes, Stevie Wonder, Mahalia Jackson, Le Supremes, Sly Stone e la cotta per Lenny Kravitz sono serviti e si sentono, ma ora il songwriter nato a Saginaw, nel Michigan, se ne è staccato e ha spiccato il volo per un viaggio paradisiaco in cui convivono R&B, soul a tratti psichedelico, gospel e funk, senza dimenticare una spolverata di jazz e rock.

Un trionfo di contaminazioni, fino a rigurgiti hip hop, retaggio degli inizi di carriera come backing vocalist accanto a Cee Lo Green, pervadono "Hopeful", dal testo, appunto, “speranzoso” in un mondo migliore, cambiato, in cui avvenga il definitivo abbattimento delle discriminazioni razziali. Brilla un sontuoso arrangiamento orchestrale, con gli ottoni in primo piano, ed emerge un magnifico solo di chitarra con riflessi hendrixiani da parte di Sam Cohen, produttore dell’opera, nonché vecchia conoscenza di Harding. La canzone si avvita languida su un simil-ritornello agrodolce, con il titolo ripetuto in loop, è piacevolmente pomposa, senza sfarzo ostentato e rappresenta perfettamente la musica che oggi l’artista americano desidera sciorinare: un catalogo di suggestioni sfaccettato, in grado di assorbire pure influenze tipiche del memphis sound come nella dirompente "Can’t Hide It", dove viene descritta una romantica corsa contro il tempo, sfuocato cronometro che annichilisce l’iniziale beatitudine dell’innamoramento.

Basterebbero, quindi, le prime tre fondamentali tracce a suggellare la riuscita combinazione di generi e ciò ovviamente riconduce all’unicità del personaggio che le ha congegnate, ma il bello di quest’album è che non esistono punti deboli; vengono anche abbracciati temi contingenti come la solitudine, connessa alla pandemia, nella rarefatta "With You", la cui melodia celestiale trova appoggio negli archi arrangiati dal geniale Sasami, e nella fluttuante "Explore", allietata con un sax coinvolgente e sconvolgente. Sì, perché questa continuità nell’essere moderno, tuttavia con salde radici risucchianti il passato, lascia stupefatti, e affiora nel saliscendi emotivo di "So Low", elevata dal suono atavico di un flauto e “sporcata” magnificamente dal ricorso pleonastico all’autotune, così come nel gospel rap di "Where’s The Love", ove l’ elastica linea di fiati intinta di umori Stax si allinea perfettamente a liriche toccanti, che specificano la necessità dell’amore, senza il quale non si potrebbe vivere su questa Terra.

Rimane formidabile, concentrandosi su un singolo brano, analizzare "The One", sentire come evocazioni dei 5th Dimension nei cori e Sam & Dave negli ottoni si coagulino per dar vita a una nuova realtà in cui lo scopo del testo, primariamente riconducibile a una canzone d’amore, si espande fino a poter esser riferito a una promessa rivolta a ciascun ascoltatore: ”I know loneliness, but I’m gonna try my best to be all that you need and a good friend…”

Il pensiero di Harding si avvicina tantissimo a quello del già citato Mayfield, accomunato dalla stessa positività e voglia di cambiare le cose che non vanno, sviscerando le negatività e spronando a impegnarsi per realizzare i sogni di un mondo migliore. Sicuramente aver vissuto una realtà particolare fin da piccolo, nel natio Michigan - luogo completamente diverso anche climaticamente parlando rispetto ad Atlanta, sua successiva tappa da quindicenne - seguendo in tour la madre cantante di gospel, è servito a formare la personalità del songwriter, strumentista completo, abile a destreggiarsi con chitarra, basso e tastiere, oltre che essere dotato di una voce stupefacente, vitale, con tonalità da crooner e pure in grado di sconfinare nel falsetto. Una voce che trasmette gioia, dolore, desiderio, tenerezza, tristezza e forza, una tempesta di emozioni che fanno venire i brividi alla pelle.

 

“Cerco di scegliere musicisti che siano più in gamba di me perché desidero sempre migliorare”.

 

Certamente Curtis possiede dentro di sé anche una buona dose di umiltà, ma questa sua osservazione spiana la strada per citare alcuni dei bravissimi artisti coinvolti nel progetto: l’occasione è ghiotta in un pezzo che è un po’ il capolavoro nascosto nell’opera, "Forever More". Le straordinarie percussioni di Elizabeth Pupo-Walker, spalleggiate amorevolmente dal batterista David Christian, il piano elettrico di Jeremy Gill, gli accompagnamenti vocali rigeneranti di Anna Ash e Justin Brown avvicinano alle lacrime in questo gioiellino, il cui mood quasi pop oriented è piacevolmente sconquassato nel finale dalla tromba jazz di Ludovic Louis, soprannominato da Lenny Kravitz “The Painter”, per le sue note colorate.

La chiusura di If Words Were Flowers è di gran classe, con l’ammaliante "It’s a Wonder", in cui i violini giocano un ruolo essenziale e la finale "I Won’t Let You Down", colma di rasserenante saggezza, architettata per avere ancora gli ottoni a fare la differenza.

I tempi rimangono caotici, ma il messaggio d’amore spedito da Curtis Harding incarna tutto ciò di cui abbiamo bisogno adesso: speranza, rispetto e devozione, per un nuovo umanesimo che rappresenti una svolta epocale, con la consapevolezza che la musica, ancora una volta, può fare la differenza.