Manhattan è il centro del mondo, una centrifuga impazzita della società, il luogo in cui i cambiamenti sociologici arrivano prima. Manhattan è Wall Street, l'economia mondiale. Manhattan è una pizza a più di 50 euro, un appartamento in affitto oltre i cinquemila euro al mese, seppur minuscolo. Potrei proseguire per molto, ma ci siamo capiti.
Negli edonistici anni Ottanta, tutto ciò era ancora più frenetico, impazzito, fuori controllo. Il boom economico Occidentale di quel periodo ha fatto la fortuna di intere classi dirigenti, nonché ha influenzato per sempre il nostro modo di vivere, sopra le nostre possibilità, considerando il superfluo come necessario. Mai come in quel periodo New York era rappresentata da due estremi: Manhattan e la sua nemesi, il Bronx. Da una parte la ricchezza, dall'altra il ghetto. Da una parte i bianchi in limousine, dall'altra i neri, le case popolari, le gang assassine.
Tom Wolfe è un giornalista e saggista americano, un dandy nostalgico. Nonostante un abbigliamento costoso e ricercato, oltre che un po' pacchiano, Wolfe è un attento osservatore della società e, da buon newyorkese, conosce la natura intrinseca della città che non dorme mai. Prima assunto al Washington Post per poi passare sulle colonne dell'Herald Tribune, il giornalista diverrà famoso ancora prima della pubblicazione de Il falò delle vanità per aver coniato il termine "radical chic", nonché per aver pubblicato un saggio (The painted world) di aperta critica contro il rutilante mondo dell'arte. Insomma, un dandy sui generis che ci ha lasciato a maggio di questo anno.
Ma con Il falò delle vanità, Wolfe si supera. Il romanzo, corposo - ben oltre le ottocento pagine - è uno spaccato lucido e consapevole della New York degli anni Ottanta. Oltre a ciò, il libro è una spietata denuncia delle devianze del giornalismo, del suo flirt pericoloso con la politica e dell'arma che le parole rappresentano nella società moderna.
Sherman McCoy, figlio di un avvocato in voga di Manhattan, lavora alla Pierce & Pierce, società che si occupa di vendita di titoli ed obbligazioni a Wall Street. Il suo stipendio è stratosferico, i suoi colleghi spietati, i suoi obiettivi professionali altissimi. Sposato con una figlia, ha comprato un appartamento lussuoso in uno dei grattacieli più sfarzosi di Manhattan. Tutto sembra andare liscio, sino a che una sera si ritrova, per sbaglio e con la sua amante, a passare per il Bronx. Si ritroverà accusato di omicidio stradale, incastrato non tanto dai suoi comportamenti, ma da un asse composto da politica, giornalismo d'assalto e giustizialismo da dare in pasto alla cittadinanza.
La grandezza del libro di Wolfe sta nell'aver centrato, in una sola opera, argomenti che a distanza di oltre trenta anni suonano sempre più attuali. C'è il tema del razzismo come sottofondo di tutta la vicenda. C'è la politica che, come sempre, per ingraziarsi le masse utilizza a proprio piacimento le stratificazioni della società. C'è il giornalismo, che per vendere qualche copia in più non ha paura a sbattere il mostro, pur se presunto, in prima pagina. C'è la polizia, troppo spesso vittima del potere. E, non da ultimo, la giustizia, il vero metro del grado di civiltà di una società.
Tantissime chiavi di lettura per un romanzo che, nonostante il numero imponente di pagine, ha sempre ritmo, anche quando le digressioni sembrano non essere funzionali allo sviluppo della trama. Non è così, ovviamente, perché sono necessarie per costruire i personaggi e le mille sfaccettature di New York.
Sono passati 31 anni dall'uscita de Il Falò delle Vanità, ma la sua storia è incredibilmente attuale, quasi a dimostrarci quanto la nostra società sia figlia di vizi e vanità che facciamo difficoltà a toglierci di dosso. Ed ognuno, in fondo, è vittima suo malgrado dello strato sociale dal quale proviene.