La sbornia rap non è passata ma ad oggi appare chiaro come in Italia la proposta musicale sia ben più variegata di quello che direbbe un semplice sguardo ai nomi del circuito mainstream. È sempre stato così, ma l’esplosione dell’It Pop prima, e poi di questa nuova declinazione dell’Hip Hop portata avanti dalle giovani generazioni, hanno negli ultimi anni oscurato un quadro generale che invece non ha mai fatto mancare le sue numerose sfaccettature. È forse l’attenzione ricevuta da un progetto molto poco in linea con i trend come quello di Lucio Corsi, a certificare in maniera evidente come esistano delle vie alternative che possano essere esplorate.
Andrea Poggio, di suo, è una vecchia conoscenza ed appartiene a pieno titolo a questo gruppo ufficioso di artisti che si muovono al di fuori degli schemi consolidati. I suoi Green Like a July hanno rappresentato per una manciata di anni un’apertura freschissima verso un’American Alt Folk sempre piuttosto sconosciuta dalle nostre parti: il cantato in inglese, il songwriting che era un crocevia tra Wilco, Neil Young e Bright Eyes, i dischi registrati in Nebraska; un unicum di cui non si sono accorti in molti ma che è stato a suo modo tremendamente bello e necessario.
Da tempo il gruppo non esiste più, con Andrea che nel 2017 inaugurò la carriera solista con Sottovuoto, virando sul cantato in italiano e spostando le sonorità sui lidi di un Pop raffinato e orchestrale.
Cinque anni tra un disco e l’altro equivalgono ad un’eternità, di questi tempi, ma ad ascoltare Il futuro (che esce ancora una volta per La Tempesta) pare siano passati pochi mesi.
Il titolo fa il verso a Leonard Cohen e le visioni di una quotidianità molto poco rassicurante evocate nella breve title track posta in apertura dicono di una formula che non è poi troppo cambiata rispetto all’esordio. Ci sono senz’altro più collaboratori: ci sono Adele Altro, Generic Animal, Enrico Gabrielli e gli Esecutori di Metallo su Carta, Galea e Angelo Trabace. Nomi importanti del panorama italiano “non allineato”, che hanno offerto il loro contributo ad un lavoro che, pur in una certa omogeneità della scrittura, si avvale di soluzioni di arrangiamento abbastanza varie.
Il tutto è prodotto da un nome importante come Ali Chant (PJ Harvey, Perfume Genius, Aldous Harding), a certificare un respiro internazionale che non è mai venuto meno, affiancato da Federico Altamura e Ivan Antonio Rossi, con quest’ultimo che si è occupato del missaggio.
Dicevamo della scrittura. Poggio è ormai a suo agio con un tipo di Pop che è un po’ Chamber e un po’ Art, sovrastrutture orchestrali ed elettronica minimale che si fondono, ad accompagnare melodie sempre molto incisive, delicatezza agrodolce nell’esecuzione vocale, una sensibilità che strizza l’occhio anche alla tradizione cantautorale di casa nostra (Paolo Conte è da lui citato come una grande fonte d’ispirazione).
Un disco piacevolissimo ed elegante, talora raffinato, che ha il suo apice nella conclusiva “Fuori città”, un brano che per certi versi ridefinisce i nostri anni ’70, e “Chilometri d’asfalto”, impreziosito da un ottimo cameo di Adele Altro, una che non ha più bisogno di presentazioni e che dimostra per l’ennesima volta di essere a proprio agio anche nel cantato in lingua madre.
Tanto talento, un po’ di mestiere (che non guasta mai, anche se a tratti ci saremmo aspettati una più precisa volontà di osare) per un disco che rimane comunque qualcosa di unico se lo si paragona a quel che gira oggi in Italia. Unico appunto: forse 25 minuti sono troppo pochi anche per i tempi che corrono. Ma è un discorso ampio, l’ho già fatto altre volte e non è il caso di ritirarlo fuori.
Lamentatevi pure che c’è ancora troppa Trap in giro, ma se non avete ancora ascoltato Andrea Poggio siete un po’ colpevoli anche voi.