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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/11/2019
Club To Club Festival
Il live report di Loudd
Il Club To Club ha vinto ancora una volta e non era difficile prevederlo. Certo, ci saremmo forse aspettati un sold out come lo scorso anno, vista l’importanza dei nomi coinvolti ma evidentemente, ormai lo sappiamo, il pubblico italiano si muove in massa solo per una ristretta cerchia di nomi (Aphex Twin è tra questi, James Blake e Chromatics no e neppure un pezzo grosso come Flume ha potuto più di tanto). Sono dettagli, però. I dati ufficiali li daranno gli organizzatori, al momento possiamo solo dire che il Lingotto era ancora una volta bello pieno e che l’affluenza è stata senza dubbio quella delle grandi occasioni.

Casomai, se dovessimo individuare davvero dei punti critici, punteremmo il dito sullo scarso interesse dimostrato dalla maggior parte dei presenti, nei confronti di quegli artisti non per forza legati al mondo dei club e dell’elettronica in generale, e a cui il festival negli ultimi anni ha aperto tantissimo. Va bene che la rassegna nasce in un altro modo e che il marchio C2C è ancora principalmente legato ad un certo tipo di musica. Però quando ti trovi ad ascoltare MorMor in mezzo ad una marea di gente che si fa i cazzi propri o quando il set di James Blake è seguito e partecipato solo dalle prime file (parola di chi stava in fondo, io ero davanti), qualche domanda uno se la dovrebbe pur fare. Per non parlare poi del fatto che in generale, non mi pare ci fosse tutta questa consapevolezza e distinzione dei vari dj e producer presenti. La maggior parte era lì per ballare, su quale tipo di musica importava relativamente. Non lo so, magari mi sbaglio, magari mi sto facendo per l’ennesima volta influenzare dal mio solito astio verso la colossale ignoranza musicale dell’italiano medio; altrettanto vero che se vai al Primavera Sound vedi le stesse scene, se non peggio. Ad ogni modo, girando per i padiglioni non ho certo avuto l’impressione di essere finito in uno dei più importanti appuntamenti musicali dell’autunno europeo, anzi.

Il secondo punto dolente è relativo alla resa sonora: dei due stage a disposizione, il “Light Over Darkness” (quello più grande) e il Crack (situato in una sala di dimensioni più contenute ma sempre molto capiente) solamente quest’ultimo ha quasi sempre offerto delle performance all’altezza. Nel primo abbiamo riscontrato ancora una volta quei problemi di rimbombo di cui ci eravamo lamentati già lo scorso anno e che hanno inficiato alcune delle esibizioni più importanti: molto male sopratutto il venerdì, con James Blake che ne è uscito un po’ malconcio, nonostante l’altissimo livello del concerto che ci ha regalato.

Se vogliamo, un altro aspetto che si potrebbe migliorare è quello relativo al cibo: va bene che il programma si svolge prevalentemente in notturna, ma forse proprio per questo, prevedere qualcosa di più di uno stand di Eataly che vende hamburger, avrebbe potuto fare bene.

Da ultimo, anche l’assenza totale del merchandising delle band non ci è sembrata una gran scelta. Francamente non so da cosa dipenda, ma visto che anche l’anno scorso non c’era nulla, immagino non si sia trattato di una coincidenza.

Stiamo comunque parlando di aspetti secondari, perché poi, nel momento in cui si debba valutare nel complesso, il giudizio non potrebbe essere che positivo.

Il motivo risiede ovviamente nella quantità e nella qualità delle esibizioni che ci siamo visti. Anche quest’anno il livello della line up, oltre che molto alto, è stato sufficientemente variegato da permettere a tanti di partecipare con profitto: chi fosse stato più interessato ai dj set e agli artisti elettronici, avrebbe trovato pane per i propri denti esattamente come chi (io ero tra questi) si fosse sentito maggiormente coinvolto dalle proposte più tradizionali.

I concerti, dicevamo, sono stati tutti soddisfacenti, con qua e là punte di eccellenza assolute.

Limitandomi ovviamente a quel che ho visto io e andando con ordine, venerdì ho avuto l’onore di assistere alla prima assoluta nel nostro paese per MorMor, artista che aveva attirato la mia attenzione lo scorso anno col secondo Ep “Heaven’s Only Wishful” (che poi è anche quello con cui la maggior parte del pubblico lo ha scoperto, visto che il primo ha avuto una diffusione molto ristretta). Le aspettative sono state ripagate solo in parte: grandissima prova vocale ma una presenza scenica un po’ ingessata ed una band molto scolastica hanno contribuito ad un set piuttosto ordinario e a tratti leggermente sotto tono, nonostante l’altissimo livello del repertorio in scaletta. Siamo contenti di averlo visto ma lo attendiamo con il primo full length (sempre che esca, visto che singoli ed Ep sembrano ormai divenuti la norma per un certo tipo di artisti) ed un live più all’altezza del personaggio.

Di James Blake non c’è bisogno di dire molto. Dopo l’ultimo, clamoroso, “Assume Form”, avevo una gran voglia di rivederlo in azione, considerando anche che al Primavera me l’ero perso per assistere alla reunion degli Stereolab. In Italia il genietto inglese non ci veniva dai tempi di “Overgrown”, quando era stato headliner al Siren di Vasto. Dico questo perché anche se tecnicamente aveva aperto per i Radiohead a Monza nel 2017, quei 40 minuti scarsi di esibizione, a tratti improvvisati e nel complesso un po’ buttati lì, seppure di grandissimo peso, non erano stati abbastanza per placare la voglia che avevamo di lui.

Qui fila tutto liscio: 90 minuti ad altissima tensione, con una setlist pesantemente incentrata sull’ultimo disco più qualche significativa citazione dal passato (splendide soprattutto “Timeless”, “Love me in Whatever Way” e un’inattesa “The Wilhelm Scream”, raramente proposta negli ultimi tempi) e una sezione molto carica con l’inedita “Loathe To Roam” che è sfociata in una coinvolgente atmosfera da Dance Floor. Esibizione non semplice, perché il suo Neo Soul spruzzato di elettronica non è mai qualcosa che arriva a livello istintivo ma il modo con cui utilizza la voce è da brividi, il feeling sprigionato da ogni pezzo è qualcosa di indicibile. Nel finale, giusto a riprova di questo, esegue da solo, piano e voce, una versione pazzesca di “Vincent” di Don McLean: non è roba sua ma paradossalmente, quella versione è utilissima per comprendere che siamo di fronte ad un fuoriclasse assoluto.

Dopo di lui, faccio un salto al Crack Stage, dove i Battles stanno terminando il loro concerto. Faccio in tempo a vedere solo 25 minuti ma è abbastanza per divertirmi e capire che sono in gran forma anche se, da quel poco che ho visto, con la formazione a due non sprigionano la stessa potenza di quando erano un trio. Vero però che dovrei vederli suonare per più tempo per esprimere un giudizio esaustivo.

Da Flume ci sono andato giusto per curiosità ma i dj set non mi hanno mai detto nulla e qui, oltretutto, l’effetto rimbombo era davvero fastidioso. Utile per muoversi un po’ ma niente che abbia davvero suscitato il mio interesse.

L’ultimo appuntamento della serata ce l’ho alle 3, quando salgono sul palco i Black Midi. I quattro ragazzini inglesi sono alla loro prima esibizione nel nostro paese, freschi di un esordio come “Schlagenheim” che ha raccolto elogi un po’ dovunque e li ha salutati come una delle rivelazioni più importanti del 2019.

Sul palco sono devastanti: volumi assurdi e potenza indicibile, con un tiro ed una precisione inauditi, soprattutto se consideriamo l’età che hanno. In particolare il batterista Morgan Simpson è una vera e propria forza della natura, pesta come un dannato, si produce in ritmi assurdi e valorizza di fatto anche la prestazione degli altri tre.

I quali, cosa ancora più incredibile, suonano 45 minuti filati, senza mai fermarsi, facendo crollare ogni barriera tra le canzoni, producendosi di fatto in un’unica suite, con divagazioni strumentali e cambi di tempo al fulmicotone. Quando è finita ci siamo guardati in faccia senza dire una parola e ce ne siamo andati via, completamente annichiliti.

Recentemente Geoff Barrows ha espresso un giudizio critico su di loro, dicendo che rappresenterebbero il peggio prodotto dalle scuole di musica negli ultimi anni. Ora, lui è un grande sempre e comunque e se opportunamente contestualizzate, le sue dichiarazioni hanno un perché (vero ad esempio che canzoni vere e proprie i quattro non le hanno); che si tratti solo di uno sfoggio di tecnica, però, è totalmente falso. Chiunque fosse presente venerdì sera se ne sarà senz’altro reso conto. Rivelazione anche dal vivo, assieme ai Chromatics miglior concerto del festival.

Già, i Chromatics. I protagonisti assoluti del sabato sono loro e mentre mi scaldo con Nivhek (ottimo Ambient di stampo acustico, minimale ma suggestivo), in realtà pregusto quello che accadrà a breve. La band di Portland è appena tornata con “Closer to Grey”, lavoro straordinario, che è riuscito non solo ad offuscare il precedente “Kill for Love” (che non era certo un dischetto) ma anche a rendere fruibile e contemporanea una proposta che nasce sostanzialmente per essere retromaniaca. Per questo tour Johnny Jewel si è portato dietro anche i Desire, il suo più famoso side project, dove è coinvolto assieme al batterista Nat Walter, e noto ai più per la colonna sonora di “Drive”, di Nicolas Winding Refn, di cui firmarono nel 2009 la hit “Under your Spell”. Le due esibizioni sono di fatto in continuità: stessi meravigliosi visual, a richiamare un’estetica coloratissima, figlia di un glamour volutamente eccessivo e smaccatamente raffinato; stesso suono, Synth Pop romantico, ruffiano nel primo caso, più melanconico e sognante nel secondo ma sempre comunque appartenente ad un mondo ricreato alla perfezione, guardato con divertimento ma anche con una certa inconsapevole nostalgia.

Il set dei Desire è breve (poco tempo per provare e mettere insieme una scaletta corposa?) ma straordinariamente coinvolgente, un po’ per la sensualità provocante di Megan Louise, un po’ per un repertorio stellare, che a capolavori come “Mirroir Mirroir” e “Don’t Call”, affianca pure una versione filologicamente ineccepibile di “Bizzarre Love Triangle” dei New Order. Si chiude ovviamente con “Under your Spell”, cantata da tutti, che ci lascia prematuramente, felici ma con l’amaro in bocca per doverci sciroppare mezz’ora di cambio palco senza potere abbandonare le nostre ottime posizioni.

La magia continua con i Chromatics, che suonano per quasi un’ora e mezza, trascurando totalmente il nuovo album (scelta assurda ma è probabile che lo tengano in fresco per il prossimo anno), inanellando una serie allucinante di classici, da “Lady” a “Night Drive”, da “Shadow” a “Time Rider”, passando per altre gemme immortali come “Kill for Love” e “These Streets Will Never Look the Same”. Suoni morbidi ed avvolgenti, un Johnny Jewel superlativo che si divide tra Synth, basso e piano elettrico ed una Ruth Radelet letteralmente ammaliante, iconica a livello di immagine e meravigliosa dal punto di vista vocale, una delle artiste più magnetiche ed evocative che mi sia capitato di vedere di recente.

Ciliegina sulla torta, le cover (così importanti nell’estetica del gruppo) della springsteeniana “I’m on Fire”, in un’intensa versione chitarra e voce con la sola Ruth sul palco, di “Into the Black” di Neil Young e, a chiudere il tutto, una “Running Up That Hill” di Kate Bush piuttosto vicina all’originale e davvero magnifica nella resa.

Lo ripeto: trionfatori assoluti del festival e tra i miei dieci migliori concerti di questo 2019. Sto esagerando? Dovevate esserci. 

Piacevole Helado Negro sul Crack Stage, autore di una performance onesta e divertente, nonostante i problemi di suono (bassi decisamente troppo saturi, voce non sempre fuori come avrebbe dovuto). Non sono un amante del genere ma vocalmente è bravissimo e la sua attitudine simpatica e molto down to earth mi ha conquistato.

I Comet is Coming invece sono stati pazzeschi, letteralmente devastanti, con il loro Funk Jazz esplosivo, trascinato da un King Shabaka fenomenale al sax. Un’esperienza immersiva totale, che per me che non ero ancora riuscito a vederli, ha senza dubbio rappresentato un’epifania.

È tardi, le cose più interessanti sono andate, personalmente mi rimane solo Floating Points che però, sul Main Stage, è già a metà del suo set. Suoni pazzeschi, visual suggestivi, con immagini luminose che, appunto “fluttuano” all’unisono con la musica, la quale viene montata dal vivo pezzo per pezzo, a disegnare un affresco ipnotico e in costante mutamento.

Ci sarebbe altra roba, ROMY e Sophie in particolare ma non reggo più, sono le 3 passate e ho una certa età. Il mio Club To Club quest’anno finisce qui. È stato ancora una volta bello aver partecipato, ed è un grande orgoglio per l’Italia che ci sia un festival così, in un paese dove, come già detto ampiamente, la musica è ancora vista come una perdita di tempo. Se riusciranno a dare una sistemata ai punti di criticità espressi, si avvicineranno davvero alla perfezione assoluta. Ci rivediamo l’anno prossimo.

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