Sono tornati i Massimo Volume. Che non se ne fossero mai andati del tutto lo sapevo perché l’ultima volta che intervistai Emidio Clementi, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo “L’amante imperfetto”, mi aveva anticipato che stavano lavorando al disco e che sarebbero usciti col nuovo anno. Però un conto è saperlo in teoria, un altro è avere una data di uscita, ricevere il disco e poterlo ascoltare per davvero.
Dunque, sono tornati. Ed è stato un lungo gap perché “Aspettando i barbari” era del 2013, il tour non era durato tantissimo e quindi sono cinque anni buoni da che si sono eclissati. Hanno fatto tutti altre cose, nel frattempo: il più attivo è stato senza dubbio Clementi, che ha scritto un romanzo e ha pubblicato tre dischi, due dedicati ai suoi spettacoli di reading assieme a Corrado Nuccini, un altro al progetto Sorge, messo in piedi assieme a Marco Caldera (li abbiamo visti in una delle puntate di “Ossigeno”, il programma Rai di Manuel Agnelli). Egle Sommacal si è dedicato soprattutto al suo progetto solista mentre Vittoria Burattini ha suonato con diversi colleghi tra cui Angela Baraldi.
Questo è il settimo disco della loro discografia, il terzo da quando, ormai dieci anni fa, decisero di riformarsi dopo lo split seguito a “Club Privé”.
E partiamo subito con una constatazione: questo non è un gruppo a cui piace vivere nel passato. Certo, dischi come “Lungo i bordi” e “Da qui” possono essere tranquillamente considerato dei capisaldi definitivi della musica italiana e loro sono certamente uno dei nomi che vengono in mente, quando si cerca di compilare una storia ragionata del “Rock alternativo” del nostro paese. Detto questo, da quando hanno ripreso a suonare insieme e a scrivere musica, hanno dimostrato di possedere ulteriori margini di crescita e di evoluzione. Molto banalmente: “Cattive abitudini” e “Aspettando i barbari” sono stati due lavori giganteschi, completamente diversi l’uno dall’altro ma entrambi capaci di ridefinire nuovi canoni nello stile di questo gruppo. “Il nuotatore”, nonostante gli anni passati, nonostante, a seguito dell’abbandono di Stefano Pilia, i nostri siano ritornati ad essere un trio, porta avanti il discorso e si configura come un disco di livello altissimo, di una forza e di una intensità tale che utilizzare la parola “capolavoro” non sembra affatto prematuro.
Partiamo dal titolo. “Il nuotatore” è un chiaro omaggio a quello che è di fatto il più celebre racconto di John Cheever e difatti la canzone omonima ne riprende in modo fedele la trama, pur ambientandola nell’Italia nei nostri giorni invece che nell’America del boom economico. La copertina però, che mostra una spiaggia estiva con i bagnanti comodamente sdraiati al sole, è totalmente un’altra cosa, comunica una luce ed una positività che contrastano nettamente con le atmosfere cupe del racconto.
Ed è proprio il contrasto, a mio parere, l’elemento chiave per poter leggere questo disco, se non altro dal punto di vista dei testi. Clementi, che è sempre stato un paroliere di primo livello e che qui non si smentisce, pare abbia messo in scena esattamente questo, la dialettica tormentata tra le aspirazioni del singolo, il compimento e la realizzazione a cui tende, e l’assoluta ed inevitabile drammaticità della vita, quella cosa per cui la realtà è spesso e volentieri diversa da come ce la immaginiamo, per cui reggere l’urto di questa alterità non è impresa facile, a volte il peso dei progetti che falliscono è tale da schiantare di colpo la vita di un uomo.
È così in “La ditta di acqua minerale”, dove il protagonista si gioca tutti i suoi averi nel corso di un’unica notte e viene poi in qualche modo “salvato” dalla moglie, che lo costringe a farsi assumere come contabile nella fabbrica dove prima era socio. Una sorta di lieto fine, sembrerebbe, adombrata però dalla constatazione che “ogni uomo è una bottiglia mezza vuota o quasi piena e che non si può giudicare senza fare i conti con quel liquido denso, indifferente a ciò che è giusto agli occhi della gente”.
O “Amica prudenza”, una sorta di ode a quella che in teoria sarebbe una virtù ma che viene tratteggiata come quella persona a cui ci si rivolge per proteggersi dal reale, per evitare i rischi e starsene tranquilli. Ma anche qui, in una sorta di indiretto richiamo al George Gray di Lee Masters, la voce narrante afferma che “ho scoperto che può annegare anche chi rinuncia a navigare”.
E ancora, la title track, dove il protagonista perde pian piano il senso del tempo al punto che la gioiosa avventura di rincasare passando a nuoto per le piscine dei vicini, si trasforma in un incubo freddo e oscuro che sa di luoghi abbandonati, di persone ostili ed una casa, la propria, chiusa e abbandonata da tempo. Anche qui, col solito stile tagliente ed evocativo che lo contraddistingue (la versione “clementiana” del racconto è, se possibile, ancora più spaventosa dell’originale) il narratore tira le somme: “a volte immagino il mondo coperto da un velo che nessuno ha il coraggio di scostare per vedere cosa c'è dietro; nemmeno io lo volevo ma poi s'è alzato il vento e quello che non osavo scoprire, ho capito che era peggio di quello che temevo”.
Non ci è dato sapere con certezza chi sia la “Nostra signora del caso”, questa sorta di divinità che sovrintende alle azioni degli uomini. Ma se il caso, parafrasando la celebre frase di Chesterton, è il nome che Dio usa quando vuole agire in incognito, qui non c’è traccia di un rapporto con l’oltre; c’è solo la rievocazione di quella che potrebbe essere la vicenda di un amore finito o forse mai davvero cominciato, e non si capisce mai fino in fondo dove finisca il caso e dove inizino le responsabilità dei protagonisti.
Anche “L’ultima notte del mondo”, fantasioso collage di personaggi celebri, da Chopin a Novalis, da Bela Lugosi a Basinski, gioca su questa dialettica tra la realtà e l’immagine che abbiamo di essa, chiedendosi che cosa succederebbe se la terra, un giorno, decidesse di uscire dalla propria orbita e di mettersi tra due soli, in modo tale che non faccia più notte. La perdita dell’oscurità costituirebbe un bene per l’umanità? Vivere costantemente alla luce del sole renderebbe le cose più facili? Niente affatto: “Pare che stanotte non ci sia verso di tornare indietro o coprire la terra con un telo, così da domani cominceremo tutti ad appassire, sazi e gentili, come giacinti nel mese d’aprile”.
E che dire di “Mia madre e la morte del gen. José Sanjurjo”? Pur prendendosi qualche licenza sulla vicenda di uno dei protagonisti degli eventi che precedettero la guerra civile spagnola, Clementi presenta in maniera geniale, attraverso la prospettiva della propria madre, l’eterno dilemma tra realtà e apparenza, tra l’immagine di sé e l’effettiva prosaicità dell’esistenza.
Se mi sono dilungato sui testi è perché la proposta dei Massimo Volume non può assolutamente prescindere da questo aspetto, come sa bene chiunque ne abbia una conoscenza anche solo sommaria. Anche sotto l’aspetto musicale, però (sempre che le due componenti possano essere scisse) questo lavoro non passa certo inosservato.
L’assenza di Stefano Pilia ha senza dubbio cambiato le cose: la presenza delle due chitarre non era semplicemente funzionale dal vivo ma spingeva i due musicisti ad interagire tra loro e a compenetrarsi l’un l’altro, cosa che in “Aspettando i barbari” risultava particolarmente evidente e allo stesso tempo ne costituiva il punto di maggior valore.
Al contrario, su “Il nuotatore” Egle Sommacal ha fatto tutto da solo. Ne esce un lavoro dal suono meno avvolgente, meno “pieno” ma allo stesso tempo più spigoloso, chirurgico, a tratti straniante. È un ritorno alle origini, da un certo punto di vista ma allo stesso tempo è un passo avanti. Egle è sempre stato un chitarrista dotatissimo, forse il più dotato dell’intero panorama italiano; non tanto dal punto di vista tecnico (che comunque non è scarso) quanto per il fatto che sin dai suoi primi passi ha saputo sviluppare uno stile tutto suo, che ancora oggi non ha eguali. Senti quelle chitarre e senti i Massimo Volume, parte della straordinarietà di questa band sta proprio qui.
E qui, davvero, si è superato. I suoi proverbiali riff sono moltiplicati a mille, ogni canzone è un piccolo, meraviglioso mondo che sta in piedi su se stesso, che brilla di luce propria e che percorre sentieri differenti, dipinge una successione di paesaggi nel giro dei suoi pochi minuti di durata. A differenza dell’album precedente, infatti, l’impressione è che, nonostante la presenza massiccia di sovraincisioni (ci sarà da capire come faranno dal vivo), la maggior parte dei brani sia costruita sulla chitarra solista: basta sentire la traccia di apertura “Una voce a Orlando”, dall’atmosfera quasi Post Rock, per accorgersi che le sue pennellate sono la cifra vera e propria dell’intero lavoro.
Il tutto è molto compatto, coeso, con una sezione ritmica martellante che va a riempire tutti gli spazi (Vittoria Burattini rimane la grandissima batterista che è sempre stata e qui l’intesa col basso di Clementi non è mai stata così stretta) ed una voce narrante anch’essa perfettamente amalgamata col resto.
Quest’ultimo punto è da approfondire, in effetti: con gli anni Mimì ha saputo sempre di più mettersi al servizio della musica, modellare il tono e l’inflessione a seconda del mutare del paesaggio sonoro; in questo, le esperienze dei reading e l’aver avuto a che fare con un progetto diversissimo come Sorge, hanno senza dubbio aiutato. Su queste nuove canzoni raggiunge probabilmente il suo zenith: la sua voce è calma, misurata, per la prima volta in assoluto rinuncia a gridare, ad alzare i toni e racconta tutto in maniera colloquiale, quasi sussurrata, senza tuttavia rinunciare alla solennità.
Il risultato è un disco che richiama fortemente il passato (“La ditta di acqua minerale” e “L’ultima notte del mondo”, con le loro rasoiate ritmiche e i loro riff inquietanti, paiono versioni aggiornate dei classici di “Lungo i bordi”) ma che non disdegna la ricerca sonora e i tentativi di trovare nuove strade: è il caso del già citato opener ma anche di “Fred”, con le sue atmosfere intime e raccolte e i suoi echi progressivi; oppure un utilizzo maggiore di chitarre filtrate, in modo tale da farle assomigliare a tastiere: “Cara prudenza” e “Nostra signora del caso” sono costruite attorno a questa tecnica ma anche l’attacco della title track è in qualche modo spiazzante. “Il nuotatore”, tra l’altro, è probabilmente la canzone migliore dell’album: un lavoro di chitarra mostruoso, con tantissimi cambi di umore, una voce che si adatta ai vari momenti e che racconta una storia che fa accapponare la pelle. Non c’è dubbio che sarà uno dei punti più alti dei concerti di marzo e che sia già candidata per essere inclusa tra i grandi classici del gruppo.
È uno splendido ritorno, questo dei Massimo Volume. Dimostra che una band può continuare a crescere anche se ha alle spalle un passato ingombrante e che si può rimanere fedeli a questo stesso passato senza essere per forza costretti a ripetersi all’infinito.
Dispiace solo che le nuove generazioni, salvo miracolose eccezioni, non avranno modo di accorgersi di un disco del genere. E lasciatemi dire che è un peccato: perché anche guardare la realtà con gli occhi di Emidio Clementi può essere un esercizio che vale la pena fare, almeno una volta nella vita.